Ai profeti delle stelle (Michelin) ‘cadenti’, i protagonisti replicano con la ricetta che funziona nell’alta ristorazione: professionalità impeccabile, diversificazione e conti sotto controllo.
Si è parlato di ‘stelle cadenti’ e di crisi del fine dining, ma a sentire i diretti interessati sembra più una sovrageneralizzazione giornalistica. Se da Copenaghen lo chef René Redzepi ha annunciato la chiusura del Noma con un netto cambio di pelle e da San Cassiano lo chef Norbert Niederkofler ha lasciato intendere che il ristorante St. Hubertus all’Hotel Rosa Alpina potrebbe non riaprire con la medesima impronta stellata, questo non significa che i macaron della Michelin non continuino ad essere ambiti.
Non è solo una questione di immagine, perché le stelle – come confermano le voci raccolte da Pambianco Wine&Food – portano clienti e soprattutto marginalità nettamente più alte rispetto alla ristorazione media. Certo, rimane indubbio che dietro a piatti elaborati, servizio sofisticato e cantine di sorprendente profondità ci voglia la mano di un buon ragioniere per far tornare i conti.
ALTA RISTORAZIONE, FU VERA CRISI?
Ascoltando le voci di chi fa impresa nel fine dining, la risposta sembra forte e chiara.“Riteniamo che sia un po’ forzato parlare di crisi del fine dining – dicono da Brusaporto i fratelli Cerea – anche se la recente chiusura del Noma ha sollevato molte polemiche e aperto un dibattito sul tema. Noi crediamo che lo stato di salute dell’alta ristorazione sia sempre molto buono, in Italia come all’estero, perché siamo circondati da colleghi dotati di grande estro, tecnica e intelligenza. Le scelte imprenditoriali sono diverse da quelle gastronomiche”. La famiglia lombarda ha però investito su più fronti. Eppure “non esiste una formula perfetta – assicurano – ma una gestione oculata delle risorse (soprattutto in tempi di crisi come quelli che viviamo) permette di affrontare le situazioni con più tranquillità. E poi stiamo assistendo a un graduale ritorno alla tradizione: i clienti apprezzano di più piatti genuini e autentici, che stimolano il ricordo e la memoria. E la nostra offerta gastronomica intercetta proprio quel desiderio”.
Per far funzionare l’alta ristorazione “sono tantissimi i fattori in gioco – evidenzia sulla stessa linea Cinzia Primatesta, moglie e manager dello chef Antonino Cannavacciuolo – la location, la filosofia di cucina, lo staff, la visione di chi porta avanti il progetto. Il divario, che a volte in effetti si crea, tra chi è in crisi e chi non lo è dipende quindi da tante variabili, per cui credo che non si possa generalizzare né in un senso né nell’altro, ma che si debba analizzare ogni situazione, con le sue peculiarità. Tendenzialmente, però, quando si raggiungono determinati livelli di eccellenza non dovrebbe esserci crisi. Se c’è, dipende da problematiche o dinamiche nascoste che sono legate alla struttura”.
Qual è dunque il segreto del gruppo Cannavacciuolo? “Saper leggere la situazione in tutte le variabili – replica Primatesta – quindi partendo dalla visione e dalla mission, con cui essere sempre coerenti, mettersi in relazione con il gruppo di lavoro. La cura di ogni dettaglio, la gestione di ogni aspetto, il controllo economico, la chiusura di fine anno sono aspetti fondamentali perché abbiamo molta responsabilità sia nei confronti di chi lavora con noi, sia nei confronti dei clienti che si aspettano un servizio di alto livello. Quando tutto funziona, anche la parte economica è in equilibrio”.
D’altra parte – come ricorda lo chef Giancarlo Perbellini – “Le Soste ha 120 ristoranti gourmet associati e alcuni vivono da venti o trent’anni”.
LA RICETTA PER IL SUCCESSO
Secondo Cinzia Primatesta, per fare impresa nel fine dining servono allora “molte conoscenze, sia professionali sia personali, perché il confronto continuo con il mercato, con le novità e le tecnologie è fondamentale. Essere aperti all’evoluzione, al cambiamento. Essere flessibili, dalla composizione dell’organico dei collaboratori all’offerta, dalla comunicazione alla gestione quotidiana. Avere dei business plan precisi, che si possono poi adattare, ma da cui partire, e una strategia chiara”. È fondamentale anche l’atmosfera in azienda. “Per esempio in Villa Crespi si respirano una positività e una solarità incredibili, unite a sicurezza professionale e a un’organizzazione che definirei “da orchestra” nel senso che ogni elemento ha il proprio ruolo, importante e determinante per l’ottima riuscita della sinfonia. Apparentemente sembra semplice, ma è il frutto di un lungo lavoro di crescita interiore e professionale”.
Gli ingredienti sono molto simili a quelli proposti dai Cerea, secondo i quali servono “passione, dedizione, ma anche visione e lungimiranza. Capire quali sono i reali punti di forza del ristorante, investire nella formazione continua, fare team, perché solo uniti e con obiettivi comuni è più facile raggiungere il proprio obiettivo”.
Anche uno spazio piccolo e complicato come Casa Perbellini – in attesa del trasloco Ai 12 Apostoli – ha sempre funzionato. “È una casa complicata, perché abbiamo pochi posti e fondamentalmente devi sempre essere al completo – ammette lo chef – ma comunque i conti sono a posto. È ovvio che la marginalità di un fine dining non può essere la stessa di uno dei nostri bistrot, però funziona. Abbiamo fatto un business plan a monte, mettendo come sempre i numeri in riga e da lì si costruisce un ristorante che deve mantenersi e deve marginare”.
Per Raffaele Alajmo la chiave è nel know-how. “Per noi oggi è il valore più alto – dice – perché abbiamo una conoscenza della cucina che parte dal bar di paese e arriva a un fast food con prodotti di qualità all’interno di un campus, fino al tre stelle o alla ristorazione in un albergo di superlusso, spaziando dagli eventi alla pizzeria. La trasversalità ci porta dal laboratorio di pasticceria con gelati, cioccolatini e panettoni, passando per il pane e arrivano a sottoli, sottaceti, salumi… Tutto quello che è il mondo del food in qualche modo lo tocchiamo. Oggi potremmo espanderci nel mondo della consulenza, cosa che non abbiamo mai fatto”.
IL PESO DELLE STELLE
Qualcuno osserva come le tre stelle Michelin possano essere un peso, forse per lo stress da alte aspettative, ma tutto sommato sembrano essere un gran vantaggio. “Più che un peso – replicano i Cerea – per un professionista è una responsabilità, non solo nei confronti dei clienti o dei dipendenti, ma anche verso se stessi. Raggiungere un traguardo come le tre stelle è galvanizzante, è un sogno che si realizza, però dobbiamo ricordarci che il nostro è un lavoro faticoso pur se bellissimo”.
Dichiarando da sempre la ricerca dell’eccellenza, secondo Cinzia Primatesta con la terza stella a Cannavacciuolo lo stress non è cambiato. “A livello di business, invece, le tre stelle hanno portato qualcosa di più – rimarca – perché l’approccio della clientela è diverso. Il fatto che ce ne siano pochi al mondo crea nell’ospite un’aspettativa altissima, ha una propensione diversa alla tavola, non è più “solo” una cena o un pranzo, è un’esperienza esclusiva e per questo deve essere indimenticabile”.
Per Alajmo l’unica necessità è “tenere i piedi per terra e continuare sulla strada della qualità, innovando”. Sì, perché a 21 anni dalla terza stella è cambiato il mondo della cucina e sono cambiati i clienti. “E poi vent’anni fa le guide erano fondamentali, oggi magari una foto di un cliente su Instagram ti riempie il ristorante. Basti pensare allo chef turco che con il gesto di salare la carne ha fatto fortuna aprendo steakhouse in giro per il mondo”. Nel mondo degli stellati pesa molto il fattore umano. “Quando ho iniziato io il food cost era la prima voce di spesa – evidenzia Perbellini – in questo momento è irrisorio rispetto al costo delle risorse umane, che sono essenziali per mantenere un alto standard di servizio”.
Forse per questo la ristorazione stellata sposa sempre più spesso il segmento hotellerie. Al Park Hyatt Milan, ad esempio, il f&b manager Nicola Ultimo non nasconde l’obiettivo esplicito di tornare ad avere un ristorante gourmet stellato, dopo che la fuoriuscita dello chef Andrea Aprea nel 2021 e la chiusura fino al 2022 hanno fatto saltare la visita agli ispettori della guida. “La stella è più sostenibile se non è un’isola – chiarisce Ultimo – e connessa a un hotel di lusso ha maggiore possibilità di garantire ricavi che la rendano sostenibile”.
DIVERSIFICAZIONE VINCENTE
Ecco allora uno dei punti cardine per costruire spalle solide a un progetto di alta ristorazione: diversificare. “Se si riesce a fare entrambe le cose è ottimale – osserva Primatesta – perché si investe diversificando e l’hotellerie può essere una bella base e anche un ammortamento dei costi”. È però difficile avere le competenze per farlo, “ma essendo figlia di albergatori, per me è stato un completamento – aggiunge la manager -. La ristorazione, i bistrot o il Banco di Antonino (format in crescita) sono invece nati quasi spontaneamente. Perché Antonino è un personaggio popolare che piace e abbiamo pensato di rendere la nostra offerta anche un po’ più democratica”.
I Cerea sono un modello in questo senso, perché oltre a concentrare sforzi e attenzioni sullo storico Da Vittorio (divenuto modello vincente come DaV anche su scala intercontinentale, da St. Moritz a Shanghai), hanno scelto di puntare anche su hotellerie e catering di livello internazionale. “Al Da Vittorio abbiamo cercato di diversificare la nostra offerta per intercettare target diversi – spiegano – se il gourmand frequenta i nostri fine dining, abbiamo anche studiato soluzioni di casual dining, ovvero i DaV. Inoltre abbiamo ampliato la nostra proposta di e-commerce, quella di pasticceria e continuiamo a portare avanti il nostro modello di ristorazione esterna che rappresenta sempre un fiore all’occhiello”.
Anche per Giancarlo Perbellini differenziare è strategico. “Avevamo una ricetta quasi perfetta e l’abbiamo applicata nei bistrot – dice – e il format funziona. Però non è uguale dappertutto, nel senso che ogni locale ha una sua anima e si sostiene con le proprie gambe”.
Da Le Calandre al campus H-Farm, dal Caffè Quadri in piazza San Marco a Cortina, non si può dire che il gruppo Alajmo punti sulla replica, anzi. “Per noi è stato importante toccare vari ambiti – conferma Raffaele Alajmo – fino a gestire la mensa in H-Farm, dove l’esercizio è riuscire a far mangiare bene anche a prezzi completamente diversi. È però evidente che il servizio è differente. Nella nostra piccola collezione di ristoranti, la parte che dà più soddisfazione a livello di business rimane il fine dining, mentre abbiamo marginalità estremamente più contenute nei casual dining e nei locali aperti tutto il giorno, perché lo scontrino è più basso”.