Dopo l’allarme di Angelo Gaja, il comparto si interroga sulla gestione di un magazzino già pieno, mentre i consumi scendono per il calo della ristorazione. L’imperativo è non abbassare i prezzi. E la distillazione, da sola, non basta: occorre intervenire a monte, riducendo le quantità
Un mercato che potrebbe faticare a riprendere quota, una concorrenza internazionale sempre più asfissiante e una produzione eccessiva. Questo è lo scenario con il quale deve convivere la filiera del vino italiano in un contesto storico che, tra l’altro, è ancora esposto alle conseguenze della pandemia. Una contemporaneità che lascia poco spazio all’ottimismo, sia sul breve che sul medio periodo.
MISURE STRAORDINARIE
Ed è proprio per questo motivo che Angelo Gaja, attraverso una lettera aperta e diffusa a inizio settembre, aveva invocato misure straordinarie per cercare di riequilibrare il mercato, “dando la priorità a un ampio, e mai visto prima, progetto di distillazione che includa anche i vini igp e dop, da avviare subito… prendendo ispirazione da quanto saggiamente aveva già fatto prima di noi la Francia”, aggiungendo inoltre, “per i prossimi due-tre anni il divieto di impiego del mosto concentrato rettificato, che costituisce per chi ne fa uso l’incentivo per eccellenza a produrre maggiori volumi di uva in vigneto”, e concludendo con un appello: “Occorrono idee nuove, pensare di utilizzare solamente gli strumenti del passato non sarà di grande giovamento prima del ritorno alla normalità”. In sostanza, il timore è che più vino c’è, più il prezzo si sconta, trascinando verso il basso (e il rosso) utili e marginalità. E allora ecco che essere i primi produttori di vino al mondo poco importa se non si riesce a venderlo tutto e bene. E bisogna cercare di farlo soprattutto ora, perché il contesto di mercato interno in cui si sta operando, come ha spiegato Denis Pantini, responsabile agroalimentare e wine monitor di Nomisma: “Dovrà tenere conto del problema più grande per il Paese, che è quello economico e che potrebbe far diminuire i consumi”. A pagare, continua Pantini: “Saranno le fasce alte, più legate al mondo dell’horeca; basta guardare anche a quello che sta succedendo in Francia”. Preoccupazioni condivise da Sandro Boscaini, presidente di Federvini: “Gli ultimi dati sull’export danno -4% per valore, che non è drammatico. Il problema vero è il bere fuori casa, dove a fine agosto si registrava -28% in un segmento, quello della ristorazione, che rappresenta il 30% del volume e oltre il 45% del valore”. A questo poi si potrebbero aggiungere, come indicato da Paolo Castelletti, segretario generale Unione Italiana Vini: “Esistono criticità come la Brexit (ma con barriere non tariffarie) e in particolare i dazi Usa che potrebbero portare a un ipotetico aumento dei prezzi del 25% facendo superare la barriera psicologica dei 12,99 dollari, e a quel punto la platea dei consumatori si ridurrebbe molto”. Ecco perché la quantità di uva colta quest’anno ha un’importanza particolare. Per Paolo Castelletti, “con gli opportuni distinguo, questa è una vendemmia soddisfacente e, a sensazione, con una produzione anche più bassa della media degli ultimi cinque anni, aspetto che per certi versi è rasserenante, anche perché a quanto pare il prezzo del vino all’origine sta tenendo”. Osservazioni confermate anche da Sandro Boscaini: “Diciamo che siamo arrivati in vendemmia, nonostante tutto, in una situazione non drammaticamente pesante, con i report di Cantine Italia che registrano qualche punto in meno di quantità rispetto all’anno scorso”. Il problema, semmai, è che se anche la produzione di fatto è inferiore rispetto agli anni scorsi, resta comunque superiore all’attuale capacità di assorbimento dei mercati, domestico e internazionale, pur tenendo già conto degli effetti della vendemmia verde. Procedura adottata per ridurne proprio i volumi in via di produzione e accompagnata dalla distillazione del vino in eccesso. Operazione quest’ultima che, come sottolineato un po’ da tutti gli attori della filiera, non solo non è stata gestita nel migliore dei modi, cioè arrivando in ritardo, con pochi soldi, interessando le categorie di prodotto sbagliate e, come ha sottolineato Denis Pantini, senza considerare che, “chi produce uva ha interessi diversi rispetto a chi produce vino, e che in certi territori il bilancio di un’azienda si fa proprio con la quantità”.
STOCK DA SMALTIRE
In conclusione, quello della distillazione sembra un palliativo che però potrebbe essere migliorato, come ha indicato Paolo Castelletti: “Partendo dal modello francese, che ha investito subito 170 milioni di euro, e da lì agendo in modo mirato e a prezzi mirati sui valori di mercato, perché un fisso omogeneo non sarebbe sufficiente per una denominazione di fascia alta e distorcerebbe il mercato per quelle meno vocate”. Per dovere di cronaca, va detto che le sovvenzioni messe a disposizione dal governo sono state utilizzate solamente per il 15% nella distillazione e 40% nella vendemmia verde. Detto questo resta il problema delle giacenze, che come ha sottolineato Castelletti: “Sul breve non c’è una situazione di emergenza, perché siamo in linea con quelle dell’anno scorso. Certo è che se guardiamo agli ultimi cinque anni il discorso cambia, perché siamo passati da 25/26 milioni di ettolitri ai 38/39 degli ultimi due anni”. Quantità che dovrebbero trovare la via del mercato e che invece, al netto della pandemia, soffrono la concorrenza internazionale dei prodotti del nuovo mondo vinicolo e anche la sempre più presente moda delle private label della grande distribuzione che, guardando al made in Italy, oltre che danneggiare parte della filiera (imbottigliando fuori dai confini) rischia anche di compromettere il controllo del prodotto: perché in alcune aree del mondo è difficile garantire che i litri esportati equivalgano a un numero di bottiglie corretto. Le risposte a tutto questo sono difficili, Angelo Gaja ha chiesto innovazione, ma come ha fatto notare Denis Pantini, “nemmeno i francesi hanno trovato per ora metodi innovativi, sono però stati più rapidi, mirati e hanno stanziato subito 170 milioni anziché 50 milioni di euro”. Di più, continua Pantini, “bisogna anche tenere presente quanto non sia facile mettere in fila tutti gli attori di una filiera complessa e differenziata, tanto più quando si deve rispondere anche a un regolamento europeo”. Nel frattempo, afferma Paolo Castelletti, “si potrebbe pensare alla riduzione delle rese e non delle rivendicazioni, così come smettere di impiantare in aree non vocate; non è obbligatorio avere un 1% di vigneto in più ogni anno”. Mentre Boscaini si fa “sostenitore della messa in sicurezza della distribuzione e della penetrazione dei mercati, perché non possiamo solo distruggere la merce”, aggiungendo poi che “anche i controlli possono essere rivisti e semplificati, magari responsabilizzando i tecnici delle cantine, anche penalmente, per le certificazioni, e aiutando finanziariamente quelle denominazioni in difficoltà per eccessi o solo perché fuori moda”. Il tutto senza dimenticare la comunicazione, sempre in bilico tra complessi di inferiorità, lotte tra denominazioni e provincialismo, perché come ha spiegato Boscaini, “non è possibile che nel mondo si parli di più di Australia, che ha quattro vitigni, che non di Italia, dove è possibile bere per 365 giorni all’anno qualcosa di sempre diverso, sempre buono e che racconta una storia sempre diversa”. Aspetto che per il numero uno di Federvini: “Deve essere operato dalle istituzioni centrali, perché le denominazioni pensano a se stesse”. Per ora, aggiunge Castelletti, “nell’ultimo incontro con il ministro abbiamo chiesto che 150 milioni di euro sui 330 milioni del plafond che ci riconosce l’Ue sia impegnato nel triennio prossimo per promozioni extra Ue, e per questo nei prossimi tavoli di lavoro saranno coinvolti anche i direttori commerciali per illustrare canali, passaggi e messaggi”.
di Fabio Gibellino