Il focus sul mercato Usa, prima destinazione dell’export di vino italiano con 1,12 miliardi di ricavi nel 2014, ha aperto i due giorni di Wine2wine, forum di Vinitaly sul business del vino che si chiude oggi a Veronafiere e durante il quale è stato annunciato dall’ente fiera un investimento di 8 milioni di euro per infrastrutture e incoming. Dalla città scaligera arrivano buoni segnali per i nostri esportatori che rafforzano la loro leadership grazie alla percezione di qualità che gli americani hanno dell’Italian wine. Gli Stati Uniti sono già il primo Paese al mondo per consumo di vini, ha spiegato il senior vice presidente per gli Usa dell’area beverage alcol di Nielsen, Danny Brager, con un 30-33% del valore mondiale e con la leadership recentemente sottratta alla Francia anche nei volumi, ma il consumo pro capite resta piuttosto basso se confrontato con quello dei principali Paesi europei, con prospettive di incremento legate anche a fattori generazionali. Da un lato c’è la generazione X che tende a invecchiare e, come già accaduto in passato per i baby boomers, l’aumento dell’età comporta una riduzione dei consumi di birra a vantaggio del vino; dall’altro c’è l’ingresso dei millennials, i nativi digitali, che stanno decretando la crisi della birra industriale premiando le piccoli produzioni locali e alcuni vini, in particolare gli spumanti. Il risultato è che negli Usa ci sono 120 milioni di consumatori abituali che tendono a premiare il vino e mettono l’Italia al primo posto per qualità percepita. Il cambiamento si percepisce nei consumi in casa e nel fuoricasa, con catene quali Starbucks che iniziano a inserire le carte dei vini e a richiedere le licenze per servire alcolici durante l’orario serale, fenomeno impensabile qualche anno fa. Il vino, in alcuni stati degli Usa, è talmente sdoganato da essere servito alla spina perfino nei bar delle spiagge. Gli ultimi dati di Nielsen indicano un incremento medio del 4,7% nei consumi di vini con punte del 10% per gli spumanti, dove la scena è dominata proprio dall’italianissimo Prosecco, che progredisce del 36,5% contro l’8,5% dello Champagne. I margini di crescita più importanti, in prospettiva, dovrebbero riguardare le grandi aree urbane del Midwest, in particolare Chicago, Detroit e il Texas, ma i principali mercati per gli esportatori di vino restano le grandi città costiere; New York da sola assorbe quasi il 15% di tutte le importazioni vinicole americane. Negli Stati Uniti sono 185mila i punti vendita del vino, 357 mila i locali dove viene somministrato, 222 mila ristoranti, di cui 36 mila quelli italiani, ha precisato Brager. Proprio l’alta percezione di qualità della nostra ristorazione si è rivelata un prezioso alleato per il vino made in Italy, offerto come naturale abbinamento ai piatti della cucina italiana. Un altro fattore di successo si sta rivelando quello che un tempo veniva considerato un limite: l’ampia varietà di uvaggi e denominazioni. L’omologazione, secondo quanto è emerso nel secondo incontro dedicato agli Stati Uniti, sta mettendo in seria difficoltà Paesi come l’Australia, che operano con prodotti “universali” come lo Shiraz dove è difficile far passare il concetto di qualità differenti per zone differenti (con prezzi altrettanto differenti), mentre per l’Italia, che dispone di una gamma molto più eterogenea di prodotti, la differenza appare più chiara agli occhi del consumatore ed è accettabile anche in termini di prezzo. Negli Usa, in sostanza, il wine lover è sempre più evoluto e ha fame di specificità. L’importante, per consolidare le posizioni, è rinnovare marketing e comunicazione investendo nei social: per il 47% dei consumatori Usa, oggi il primo influencer degli acquisti è Facebook.