Non solo Barolo, Barbaresco e Asti. Le piccole denominazioni piemontesi stanno crescendo di fama e di prezzo, diversificando ancor più il panorama vinicolo regionale. Dal metodo classico ai lunghi invecchiamenti, ecco le dop più promettenti
Il Piemonte vinicolo è un mosaico di zone vocate, di vitigni, di storie enoiche familiari, specchio di una vita rurale ancora molto viva, che tramanda tradizioni e cultura del territorio spesso dimenticati in altre regioni italiane. Non esistono solo i grandi nomi in Piemonte, ci si può perdere fra le 60 denominazione d’origine, alcune delle quali appaiono in piena ascesa.
VALORE NEGLI ANNI
L’Alta Langa, pur essendo stata riconosciuta docg solo nel 2011, vanta una lunga storia: il primo metodo classico a essere prodotto in Italia, fin dalla metà dell’800, fu nelle “Cattedrali Sotterranee” del Piemonte. L’Alta Langa include un’area che abbraccia le province di Asti, Cuneo, Alessandria, una lunga fascia collinare alla destra del fiume Tanaro. Un territorio individuato con uno studio autorizzato dalla regione e dall’Istituto sperimentale per la viticoltura, che ha portato, dal 2000 in poi, all’impianto di vigneti in altitudine e in luoghi poco conosciuti, con la conseguente valorizzazione delle colline, anche da un punto di vista economico. Giulio Bava, al suo terzo mandato come presidente del Consorzio Alta Langa (nato nel 2001), spiega un successo che ha portato in pochi anni ad aumentare il numero di cantine coinvolte (39 produttori), di bottiglie (al tirage quest’anno erano 2 milioni di bottiglie a fronte delle 650.000 del 2016) e di ettari (315 rispetto ai 100 del 2016): “Il nostro risultato è dovuto a una crescita di autorevolezza per l’estrema cura che mettiamo verso la qualità. Ci siamo imposti dei tempi lunghi: il nostro Metodo Classico non esce prima di 30 mesi”.
L’Associazione produttori del Nizza nasce nel ‘12, da un processo di valorizzazione che parte negli anni ‘90. “Sono stato tra i fondatori – spiega l’attuale presidente Gianni Bertolino, al suo secondo mandato – e ho visto in questi anni crescere un vero spirito di squadra fra i soci (ad oggi 65). Nel 2014 abbiamo ottenuto la Docg. Dal ‘16 al ‘19 le performance sono andate a crescere con un incremento del 100% rispetto alle circa 315mila bottiglie complessive del ‘16. Un trend a iperbole in tre anni consecutivi: l’imbottigliato sale del +17% nel ‘17, del +18% nel ‘18 e quasi del 45% nel ‘19 (circa 630mila bottiglie). Anche gli ettari di vigneto rivendicato a Nizza Docg crescono: dai 131 del ‘16 ai 223 del ‘19. Ma non cresciamo solo a volume, perché noi puntiamo al valore. Le nostre bottiglie escono in enoteca a un prezzo minimo di 10-13 euro fino a un massimo di 85. Nel ‘18 abbiamo fatto la zonazione con Masnaghetti, proprio per far prendere coscienza ai produttori del territorio nel quale lavorano, puntando alla valorizzazione, anche in chiave enoturistica”.
Le modifiche al disciplinare che legheranno in modo definitivo il vitigno Timorasso alla sua città Tortona, chiamata Derthona in epoca romana, sono ancora depositate al Mipaaf (causa pandemia). Un vitigno destinato all’estinzione (nell’87 c’era solo mezzo ettaro) che fu resuscitato da Walter Massa. Iniziò a produrlo per primo nel ‘87, dieci anni dopo imbottigliarono anche un paio di vigneron locali e uno da fuori zona; nel 2000 altri locali si aggiunsero e pian piano arrivarono anche a partire dal ‘14 i langhetti. Oggi gli ettari sono 200, con un +60% nell’ultimo anno, e si producono circa 600mila bottiglie con 132 realtà all’attivo, fra coltivatori e imbottigliatori. Massa fu anche il primo a rendersi conto che il vino invecchiava molto bene e che quindi era necessario non farlo uscire in annata, ma attendere. “Il successo del Timorasso – spiega Massa – è dovuto principalmente alla sua terra, così ricca di sali minerali, litio, zolfo, tutti elementi che esaltano i tioli varietali. Ma anche alla sua unicità: a oggi il dna del Timorasso non mostra legami con altre vitis vinifera. Quando siamo partiti più di 30 anni fa abbiamo applicato un prezzo giusto per un vino di qualità, non ci siamo mai svenduti e questo ci ha posizionato bene”.
IL FASCINO DEL PICCOLO
Un altro vitigno che si sta valorizzando è il Ruché. I dati al ‘19 vedono un incremento di produzione del 7%, con circa 1 milione di bottiglie su 185 ettari, con l’export che si assesta attorno al 30%. “Abbiamo introdotto – spiega Luca Ferraris, presidente dell’Associazione Produttori del Ruché (che rappresenta il 98% della produzione imbottigliata), al suo secondo mandato – un controllo sull’aumento degli ettari. Siamo ancora una piccola realtà, ma puntiamo sulla qualità, senza dimenticare il marketing territoriale, un progetto che l’anno prossimo ci vedrà impegnati su tutta la filiera, anche gastronomica e ricettiva. Quest’anno abbiamo avuto visite di tantissimi turisti italiani: per fare un esempio, la mia azienda in agosto ha fatto in 6 giorni il fatturato dell’intero mese dell’anno prima. La nostra forza è stata quella di metterci insieme, produttori piccoli e grandi, e rappresentarci in cda equamente, senza distinzioni di dimensioni. L’intento a breve termine è di alzare ancora l’asticella posizionandoci a un prezzo più alto, seppur in enoteca si va già dai 10 ai 15 euro per il base e fra i 25 e i 30 per la riserva”.
Il Monferace è un progetto partito in sordina nel ‘06 con Ermanno Accornero, che poi ha visto mettere radici più solide nel ‘16 coinvolgendo altri 9 produttori in un’associazione per promuovere un Grignolino che abbia almeno 40 mesi di affinamento, di cui 24 in botti di legno. “Il progetto Monferace (l’antico nome del Monferrato aleramico) – ci racconta Mario Ronco, enologo e vice presidente – ha come punto di forza il vitigno, che ha una storia antica, con radici nell’Alto Medioevo, dove già era noto per la capacità di invecchiamento”. I 10 produttori si sono dati un disciplinare rigoroso e l’anno scorso hanno fatto uscire in commercio i primi 2015. Una novità alla quale prestare attenzione.