Nessun riconoscimento giuridico, ma un mercato dinamico, vivo e in costante crescita. Più associazioni, più filosofie, spesso con obiettivi non coincidenti, soprattutto sul fronte della certificazione e dei controlli.
Da ormai più di 20 anni nel mondo del vino italiano ha trovato una sua stabile collocazione una categoria che, pur non esistendo dal punto di vista legislativo, occupa una fetta di mercato costantemente in fermento quanto a novità, presente sulle carte dei vini di ormai molti ristoranti, così come nei listini di importanti distributori nazionali e nelle sezioni di siti di e-commerce specializzati. È il cosiddetto universo del vino ‘naturale’, da non confondere con quello ‘semplicemente’ biologico, questo sì dotato di una sua legge e certificazione a livello europeo, o quello biodinamico, che non ha invece una certificazione ma svariati marchi collettivi, ognuno con un proprio disciplinare e piano di controlli.
Alcuni principi base comuni a tutti
Cercare di definire cosa sia il vino ‘naturale’ non è tuttora impresa semplice perché non esiste un’univoca definizione di cosa sia, o meglio, ne esistono più di una. Le differenti associazioni che riuniscono i produttori che si autodefiniscono ‘naturali’, infatti, si distinguono l’una dall’altra non solo per avere differenti visioni politiche e filosofiche, ma anche nel consentire o meno determinate pratiche sia in vigna che in cantina. Tutte, però, si riconoscono in un approccio che non solo ovviamente vieta pesticidi e prodotti di sintesi in vigna, ma considera il vino un prodotto che deve rispecchiare fedelmente il territorio di origine e le uve di partenza, cercando di trasmettere nel bicchiere “emozioni”, una parola quest’ultima che spesso ritorna nei discorsi di molti di loro. Per riuscire a raggiungere questo risultato non c’è una ricetta unitaria. L’utilizzo di anidride solforosa, per esempio, considerata dai più il nemico numero uno, o è vietata tout court, o tollerata in dosi molto basse, ma comunque decisamente inferiori rispetto al disciplinare del vino biologico. I lieviti selezionati sono messi al bando, così come pratiche troppo invasive in cantina (concentrazione tramite osmosi inversa o acidificazioni/disacidificazioni). Per alcuni non va controllata neanche la temperatura in fase di fermentazione alcolica, che un po’ per tutti deve essere spontanea.
Un mercato (per ora) senza numeri
La stragrande maggioranza di questi produttori ha la certificazione biologica, ma non sempre la esibisce in etichetta per non confondersi con prodotti da largo consumo che si trovano sugli scaffali della grande distribuzione. Una piccola parte aderisce ai dettami e alle pratiche della biodinamica sotto il cappello di uno dei vari marchi collettivi esistenti, tra i quali il più famoso e quasi egemone è certamente Demeter.
Ma quanti sono esattamente i produttori di vino ‘naturale’? Quanti milioni di bottiglie che possono essere definite tali sono presenti sul mercato? Che fatturato sviluppano? Chi è il consumatore tipo che le acquista? Quanti di loro operano all’interno del perimetro delle denominazioni e quanti invece ne sono usciti? Domande lecite, ma alle quali è impossibile dare una risposta come avviene per altri comparti. Dieci anni fa una pubblicazione dal titolo “Il vino naturale, i numeri, gli intenti e altri racconti” realizzata dal gruppo di autori di Servabo (editore cooperativa Versanti), tentò di dare per prima una risposta, seppur parziale, a questi quesiti mettendo insieme alcuni tasselli di questo vero e proprio puzzle che già all’epoca faceva molto parlare di sé. Un frastagliato arcipelago che ora però ha ampliato ulteriormente la platea dei suoi estimatori, non più solo super appassionati che vedono nel vino un medium culturale, ma anche normali consumatori, spesso molto giovani e particolarmente sensibili alle istanze della sostenibilità, non solo ambientale. Oggi come allora, però, manca non solo una certificazione comune, ma anche una visione d’insieme e, di conseguenza, sono assenti tutta una una serie di indicatori in grado di consentire sia ai produttori che ai consumatori di fare scelte oggettive e consapevoli.
VinNatur, gli alfieri della certificazione e dei controlli
“La potenza non è nulla senza il controllo”, dice una famosa pubblicità. La bontà e lo spirito ecologico non bastano. Angiolino Maule, produttore in quel di Gambellara in Veneto, è uno dei pionieri di questo universo, a capo di VinNatur, associazione nata nel 2005 e che recita un ruolo centrale nel mondo del vino ‘naturale’; 220 produttori iscritti, che messi assieme conducono circa 2mila ettari e producono tre milioni e mezzo di bottiglie. Una delle peculiarità di questa associazione è certamente il desiderio di percorrere la strada che porta a un riconoscimento giuridico del vino ‘naturale’ a livello istituzionale.
VinNatur si è infatti dotata di un vero e proprio disciplinare, ma soprattutto di un piano di controlli, che da tre anni è affidato a un ente esterno, Valoreitalia, leader a livello nazionale proprio nei controlli delle Doc, Igt e Docg, così come del biologico. “Abbiamo organizzato dei webinar con i loro ispettori, che sono 120: erano già preparati a livello burocratico, ma noi li abbiamo formati anche a livello pratico. Oggi tutti affrontano questo controllo con gioia, perché è anche un modo per scambiarsi informazioni e crescere”. Ma fare vino ‘naturale’ conviene? “Sì. I costi vengono spesi soprattutto nella manodopera, ma pochi nei macchinari e zero nella chimica. È una scelta sostenibile. Anche se molto faticosa”. La stragrande maggioranza degli iscritti, ma è una caratteristica che appartiene un po’ a tutto questo universo, sono artigiani, spesso di piccole dimensioni. I produttori industriali, però, non sembrano esclusi a priori. “Non li vedo come nemici, se sono controllati. Ecco perché ci vuole un disciplinare. Se i grandi del vino cominciassero a non usare più pesticidi e cominciassero a fare vino naturale ne sarei felicissimo, significherebbe che i nostri sforzi sono serviti. Certo, noi naturalisti dobbiamo sempre stare davanti, essere i cavalli da corsa che fanno vini che gli altri, i convenzionali, non riescono a fare in modo emozionante”.
Vi.Te, i primi ad aprire la porta di Vinitaly
Le associazioni del vino ‘naturale’ sono famose per organizzare fiere indipendenti, alcune delle quali, le più importanti, proprio in concomitanza con il Vinitaly di Verona. Tutte tranne una: Vi.Te. Acronimo di ‘Vignaioli e Territori’, nasce 13 anni fa (con il nome di Vivit) proprio dal desiderio di entrare nel tempio di quello che loro considerano il vino convenzionale, trovando spazio, autonomia e riconoscimento. “Fu un successo talmente eclatante che Vinitaly ci pagò persino i controlli per dimostrare che non usavamo pesticidi”, ci spiega il suo presidente Gabriele Da Prato, produttore della provincia di Lucca. “Oggi noi non siamo più solo ospiti di Vinitaly, ma collaboratori importanti: formiamo i colleghi che vengono a Verona e gli operatori organizzando momenti di formazione”. Sono circa 130 le realtà che orbitano intorno a questa associazione, tutti biologici, alcuni anche Demeter. Per quanto riguarda una possibile certificazione ‘naturale’ Da Prato appare possibilista, e la recente partecipazione a Milano alla fiera Vi.Na.Ri (Vignaioli Naturali Riuniti) insieme a VinNatur sembrerebbe andare in questa direzione, anche se sul fronte dei controlli la scelta è differente. “Noi facciamo visite tra colleghi per vedere se ci sono tutti gli aspetti agronomici che rispecchiano la nostra idea di fare vino”.
ViniVeri, i primi a crederci
“Siamo l’associazione più storica. Un Consorzio di vignaioli che per primo ha messo insieme le istanze di quella parte evoluta del settore vinicolo che i wine writer e gli operatori del settore hanno sempre chiamato naturale”, racconta Paolo Vodopivec, storico esponente di questo mondo e produttore nel Carso triestino. Nata nel 2003, ViniVeri ha 24 soci, ai quali si aggiungono circa 120 aziende che aderiscono a quella che loro chiamano ‘La Regola’, non un disciplinare, ma una serie di principi e azioni che tutti devono seguire e mettere in pratica. “La dichiariamo pubblicamente e ogni vignaiolo di ViniVeri la deve firmare, rispettare e portare avanti sia nel lavoro in vigna che in cantina. Questa è la nostra certificazione che da quasi venti anni offriamo ai consumatori dei nostri vini”. Vodopivec è molto scettico circa l’interessamento sempre maggiore da parte di grandi gruppi industriali al vino ‘naturale’ con la creazione di linee bio, senza solfiti, vegane e via discorrendo. “Operazioni di maquillage. Pura strategia di marketing per differenziare l’offerta e ampliare il proprio mercato. Quanto di più lontano dal nostro mondo. La nostra è una filosofia, una concezione non solo produttiva ma di vita. Il solo salto di qualità che riconosciamo è quello di un’azienda che abbraccia in toto e in maniera consapevole l’agricoltura e la produzione naturale”. L’anno scorso ViniVeri ha pubblicato una sorta di manifesto insieme a Sandro Sangiorgi, docente, scrittore e storico mentore di questo universo, che ha denunciato la pericolosa piega presa da molti produttori, rei di mettere in commercio vini in molti casi sgrammaticati, se non palesemente difettati. “È innegabile che negli ultimi anni il crescente successo del vino naturale abbia creato un effetto bandwagon con l’arrivo di nuove produzioni e nuovi vini. Ma bisogna avere il coraggio di dire che non sono giustificabili certi difetti”.
RENAISSANCE Italia: la biodinamica e la ‘garanzia partecipata’
Fondata da Nicolas Joly in Francia nel 2001, celebre produttore della Loira con la sua Coulée de Serrant, l’associazione Renaissance des Appellation ha una costola in Italia che ha visto come figura centrale Stefano Bellotti, produttore piemontese scomparso nel 2018. “Siamo tutti biodinamici e il discorso dell’antroposofia per noi è fondamentale. Noi lavoriamo sul miglioramento dell’agricoltura ma anche su un percorso di formazione come persone”, ci spiega Federico Orsi, vigneron sui Colli Bolognesi e attuale presidente. Sono in 35 e vi si accede solo se invitati da altri soci. “La certificazione del vino naturale? Non ci interessa”, afferma con sicurezza Orsi, che anzi reputa questa via come controproducente. “Creerebbe steccati, come diceva Bellotti. A quel punto, se un’azienda che vuole fare solo greenwashing volesse aderire, sarebbe impossibile impedirglielo”. Qui invece si parla al massimo di “garanzia partecipata”, ovvero di autocontrollo. “Tutte le aziende socie vengono visitate almeno una volta dagli altri, quindi abbiamo un calendario fitto di visite durante l’anno. I soci visitano i propri colleghi non con l’obiettivo di fare un’ispezione, ma conoscenza reciproca”. Il rischio di essere accusati di autoreferenzialità non spaventa Orsi. “Sì, lo siamo. Siamo piccoli, artigianali e ci conosciamo tra noi”.