“Un anno e mezzo fa ci saremmo aspettati di avere un quadro definito in relazione alla Brexit, ma a 6 mesi dalla deadline ci sono ancora diversi scenari possibili”. Nasce da questa premessa il focus che il III° Forum Agrifood Monitor di Nomisma e CRIF, presentato venerdì 28 settembre a Bologna, ha voluto dedicare alle prospettive del mercato britannico per il made in Italy e per l’Europa.
Con un valore superiore ai 3 miliardi di euro, il Regno Unito rappresenta il quarto mercato per l’export agroalimentare italiano, anche se è oggi nettamente il primo sbocco per Prosecco (acquista 4 bottiglie su 10 esportate), pelati e polpe di pomodoro (20% dell’export a valore). Anche Parmigiano Reggiano e Grana Padano realizzano il 9% delle proprie vendite estere in Gran Bretagna. E l’incremento è stato particolarmente alto nell’ultimo decennio, caratterizzato da un +43% per i prodotti agroalimentari italiani. Una spinta rallentata nei mesi successivi al referendum sulla Brexit, soprattutto per la forte svalutazione della sterlina, ma ripartita nella prima metà del 2018
“Parlando di indicazioni geografiche, non bisogna sottovalutare il fatto che tra vini e prodotti alimentari Dop e Ipg finisce in Gran Bretagna circa un miliardo di euro del nostro export di eccellenze, vale a dire quasi un terzo dell’intero valore delle esportazioni italiane di food&beverage in questo mercato”, sottolinea Denis Pantini, responsabile Area Agroalimentare di Nomisma.
Il report curato da Nomisma ha nettamente evidenziato l’impatto anticiclico dell’andamento della sterlina sull’export in UK. Eppure fanno ben sperare le convinzioni espresse al Forum bolognese da Rebecca Halford-Harrison dello studio legale Keystone Law. “Il food italiano potrebbe diventare troppo costoso? Certo, ma in questo momento c’è una grande attenzione al food. Anche il pub in una piccola cittadina punta a servire ottimi piatti e i fornitori sono importanti”. Ecco allora che, di fronte alla possibilità che la qualità italiana possa esser rimpiazzata con prodotti (meno controllati) da Usa o Asia, Halford-Harrison replica: “La gente vuole sapere da dove viene il cibo che mangia ed è estremamente sensibile ai rischi legati a provenienze incerte. Le opportunità più interessanti per il made in Italy credo siano proprio in questo middle-market che può e vuole scegliere la qualità”.
Certo non sarà un passaggio indolore. Se da un lato i consorzi sono chiamati ad accelerare sulla protezione dei prodotti a marchio – utile l’esempio del Parmigiano che ha già registrato “Parmesan” in UK per bloccare l’import da Usa e Australia – secondo Halford-Harrison lo scenario post-Brexit vedrà un’accelerazione su partnership e joint venture: “in particolare per le Pmi potrebbe esser strategico collaborare con soggetti locali anche sul piano manifatturiero, esportando semilavorati e completando il confezionamento in UK”. L’altro focus strategico è lo sviluppo di una supply chain sul web: “L’online market UK è il più sviluppato nell’Occidente e abbiamo bisogno dei prodotti italiani. Soprattutto nel vino ci sono ancora grandi opportunità. Non siamo certo felici di accogliere prodotti Ogm americani o asiatici”.
Le indagini di mercato riferite da Luca Giavi, direttore del Consorzio del Prosecco Doc, sembrano confermare, almeno per un consumatore su due, il mantenimento delle propensioni all’acquisto. Rimane il problema dell’Italian sounding, ma con operazioni attente (vedi il Parmigiano) ci si può difendere valorizzando i brand.
Alle preoccupazioni italiane (e comunitarie) su protezione Ig, etichettature, relazioni con il continente espresse dell’europarlamentare Paolo De Castro, il viceambasciatore britannico Ken O’Flaherty ha replicato con un rassicurante: “l’UE rimarrà il partner privilegiato”. In sostanza si profila il modello Norvegia.