Enrico Bartolini, in soli tre anni dal suo arrivo a Milano, ha costruito un piccolo impero “stellato” fatto di ristoranti propri e collaborazioni. Il metodo? Captare il genius loci, tenendo un posizionamento alto e responsabilizzando i project manager
Nel panorama dell’alta gastronomia italiana, c’è uno chef che negli ultimi anni si è guadagnato con le sue azioni il ruolo di campione delle nuove aperture di ristoranti. Si tratta di Enrico Bartolini, cuoco-imprenditore toscano che dal 2016 guida il ristorante al terzo piano del Mudec di Milano, due stelle Michelin, punta di diamante del suo universo di locali e collaborazioni. A soli 38 anni, oggi Bartolini è un leader sia in termini di nuove insegne da lui dirette, sia per le partnership di diversa natura avviate in Italia e all’estero con differenti società. La storia professionale di Bartolini è cambiata nel momento in cui ha iniziato a operare a Milano, entrando nel mondo della ristorazione milanese nel momento più favorevole per la città. Dopo gli inizi sotto la guida di Massimiliano Alajmo, l’iniziale affermazione in Oltrepò alle Robinie di Aldo Coppola (dove conquista la prima stella) e l’esperienza al Devero di Cavenago Brianza (seconda stella), dal 2016 in poi lo chef ha firmato col suo nome cinque ristoranti italiani: il ristorante al Mudec di Milano, il Casual a Bergamo, la Trattoria Enrico Bartolini presso l’Andana del Gruppo Terra Moretti a Castiglione della Pescaia (raccogliendo l’eredità di Alain Ducasse), il Glam all’interno del luxury hotel Palazzo Venart a Venezia e la Locanda del Sant’Uffizio in provincia di Asti, tra le colline del Monferrato, per complessive cinque stelle Michelin. A questi si aggiungono il ristorante Spiga a Hong Kong, il primo all’estero col suo marchio in collaborazione con Dining Concepts, e le partecipazioni con Skelmore Hospitality nei locali Roberto’s di Dubai e Abu Dhabi. Bartolini ha anche stretto una partnership con Pandenus, tra i format di maggiore successo soprattutto a Milano, destinata ad ampliarsi nel prossimo futuro, mentre a maggio di quest’anno ha concluso, dopo pochi mesi, quella iniziata con Eataly presso il parco agroalimentare Fico a Bologna. Lo chef ha portato la sua filosofia “Contemporary Classic”, un mix di tradizione e innovazione, anche al di fuori dei suoi ristoranti attraverso attività collaterali importanti per il suo business: i catering e i banchetti per gli eventi e varie collaborazioni, come quelle con la maison Krug, il brand di lusso Hermès, la compagnia aerea Emirates. Infine, Bartolini collabora con La Collina dei Ciliegi, cantina della Valpolicella dell’imprenditore della finanza Massimo Gianolli, per la Sky Lounge Vip allo stadio San Siro di Milano. Tante attività, anche geograficamente distanti tra loro, comportano la necessità di un metodo gestionale tale da garantire un costante livello di eccellenza, dal servizio alla cucina. Ed è grazie a questo metodo che Bartolini è riuscito nell’intento di crescere mantenendo, nelle diverse formule, un posizionamento alto e un rafforzamento del brand.
Negli ultimi anni ci ha abituati a continue aperture: dove vuole arrivare?
Siamo una piccola realtà che oggi conta cinque ristoranti, alcuni di questi come l’Andana o la Locanda del Sant’Uffizio si dividono al loro interno in diverse attività; poi ci sono i tre locali all’estero in cui siamo partner e due bistrot a Milano insieme a Pandenus, che diventeranno sei a inizio 2019. A tutto questo si aggiungono gli eventi, le colazioni dell’hotel e gli showcooking, che danno una discreta sostenibilità e ci consentono di continuare a lavorare sul nostro obiettivo: la qualità.
Quanti dipendenti lavorano nei suoi ristoranti?
Se consideriamo i locali a gestione diretta, attualmente sono circa 150 dipendenti, mentre superiamo i 200 contando quelli dove siamo in società.
Come fa a gestire tutti questi locali, anche lontani tra loro?
Non ho la sfera magica, sono fortemente concentrato sui contenuti e non mi lascio impressionare dai volumi. Mi interessa che i numeri siano sostenibili, ma la lunga vita di ogni società è data soprattutto dai contenuti che si esercitano. Per farlo servono le persone. In ogni attività che abbiamo aperto c’è qualcuno su cui contare con il suo senso di responsabilità, la sua preparazione e la sua voglia di condividere il nostro progetto gastronomico.
Le persone sono quindi centrali nel suo progetto?
Sì, ogni locale ha un suo carattere e quel carattere dipende anche dalle persone che ci lavorano, le quali interpretano il luogo e lo fanno loro, ricevendo tutto il mio sostegno. Voglio che ogni ristorante esprima i suoi contenuti tramite le persone e mi piacerebbe che questo portasse a raggiungere un livello qualitativo uguale per tutti i diversi locali.
Che risultati sta ottenendo dal punto di vista economico?
Quest’anno prevediamo una crescita ulteriore del fatturato consolidato e tutte le singole attività stanno registrando un plus. Ma ripeto: non siamo la gdo, non pesiamo tutto in base al fatturato, è importante anche fare margine e aumentare la qualità. Se ci sono margini vuol dire che abbiamo lavorato bene, ma quello che ci interessa maggiormente è ripetere le nostre performance di qualità.
Come pensa di valorizzare il brand Enrico Bartolini?
Ne stiamo parlando in ‘famiglia’, c’è sicuramente l’intenzione di posizionarci a un certo livello. In un periodo dove per fortuna c’è tanto interesse per la gastronomia e si assiste a tante nuove aperture, vogliamo identificare il nostro lavoro in modo preciso, con una sua chiara identità. Crediamo di occuparci bene della gestione di ristoranti dagli otto ai venti tavoli, con un menù degustazione e un secondo menù con una carta articolata, dove si recita il servizio del fine dining. Ci appassiona e ci diverte, ma allo stesso tempo facciamo un’autocritica costante. Se questo metodo viene riconosciuto dagli appassionati di gastronomia come valido per costruire un brand, allora va bene.
Quanto tempo si dà per riuscirci?
Io ho studiato a scuola che un marchio, per avere successo, ha bisogno di esercitare per trent’anni una sana attività con lo stesso posizionamento e in crescita; se cambia direzione, deve determinarne il motivo in maniera efficace. Oggi è tutto più veloce, ma costruire un brand in pochi anni è impossibile. Sono passati tre anni da quando sono arrivato a Milano, partendo da Cavenago Brianza, e credo di dover ancora dimostrare tutto.
Che progetti ci sono in cantiere per la collaborazione con Pandenus?
Ci siamo allargati al bistrot non per fare dei volumi, ma perché vogliamo farci osservare, con la necessaria sostenibilità economica, in un’attività diversa dalla nostra e volevamo allargare la nostra visione e le nostre relazioni. Attualmente con Pandenus siamo già presenti in due location a Milano, in Brera e piazza Gae Aulenti, e abbiamo in programma un coinvolgimento in altri quattro locali a inizio 2019. Lavoriamo per individuare la giusta identità da replicare e per dare a ogni locale una personalità in relazione al quartiere in cui si trova e agli orari in cui viene frequentato. Si tratta di un format che si inserisce bene nei quartieri delle città e l’obiettivo è perfezionare queste attività puntando sulla pasticceria, la caffetteria e la panificazione.
Perché invece ha concluso la collaborazione con Fico Eataly World a Bologna?
A Fico ho trovato un metodo che non era il mio. Ammetto che non conoscevo bene il luogo, ma sono rimasto scosso dalla differenza tra la realtà e le mie aspettative. Quello che mi immaginavo di poter fare lì non era realizzabile, il pubblico era distratto e mancava la possibilità di godersi la tavola, pertanto ho chiesto di uscire. Fico è una destinazione turistica, ma a mio parere non dovrebbe avere al suo interno solo attività legate al cibo. Comunque le persone che lavoravano lì con noi sono state trattate bene e alcune lavorano ancora con noi.
Ha in programma nuove aperture, anche all’estero?
Sono innamorato dell’Italia, i nostri valori non li trovo altrove. Milano in particolare è letteralmente esplosa, possiamo approfittarne ancora, ma ci sono tante aree italiane che possono crescere, basta saper valorizzare bene i territori. C’è sicuramente l’opportunità di fare tante altre cose in Italia.
Quali sono i suoi obiettivi futuri?
Mi sento fortunato ad aver fatto tutte queste cose finora e a essere circondato da queste persone che amano questo progetto, lo considero un punto di partenza. Al Mudec l’obiettivo è inserire un nuovo menù degustazione, per un totale di tre, e aumentare la carta. Il mio desidero è che il sommelier e il direttore di sala si sentano felici e che il menù abbia una maggiore identità. Dobbiamo mettere a fuoco certe cose, abbiamo tante idee da applicare per capire che tipo di qualità abbiamo raggiunto e vorrei che tutti i ristoranti crescessero in termini di qualità, per poi consolidarla. A 38 anni credo sia un buon momento per dimostrare la mia maturità.
di Gabriele Perrone