Una sorta di manovra da 2,7 miliardi di euro ai danni del fuori casa, che rischia di non comportare alcun beneficio né limitazione del rischio di contagio. Così viene considerata, dai diretti interessati, la disposizione contenuta nel Dpcm del 24 ottobre che impone la chiusura alle 18 dei pubblici esercizi, fatta salva la possibilità di effettuare servizio take away e delivery. Il calcolo del danno lo ha effettuato Fipe, la federazione dei pubblici esercizi di Confcommercio, evidenziando come l’imposizione della chiusura prima dell’orario di cena faccia saltare lo svolgimento del servizio principale della giornata. E certamente la possibilità di gestire il pranzo non compensa il calo degli introiti legati alla cena, tantopiù in un momento nel quale prevale lo smartworking.
“La contrarietà si aggiunge alla consapevolezza che non esiste connessione tra la frequentazione dei pubblici esercizi e la diffusione dei contagi, come dimostrato da fonti scientifiche, che attribuiscono piuttosto ad altri fattori – mobilità, sistema scolastico e mondo del lavoro – le principali fonti di contagio”, ha affermato Fipe in una nota diffusa al termine del consiglio di presidenza. Intanto è confermata la manifestazione indetta per il 28 ottobre in 21 piazze d’Italia, “per ribadire i veri valori del settore – economici, sociali, culturali ed antropologici – messi in seria discussione dagli effetti della pandemia da Covid-19, che sta mettendo a repentaglio la tenuta economica del settore, l’occupazione (a rischio oltre 350mila posti di lavoro) e il futuro di oltre 50.000 imprese”.
L’entrata in vigore del Dpcm ha sollevato un putiferio misto a rassegnazione, come si può evincere dalle reazioni sulle pagine social di ristoratori e addetti ai lavori. E quella di Fipe non è certamente l’unica reazione contraria tra le associazioni di categoria. “Lo stop alle 18 agli agriturismi equivale alla chiusura delle attività”, ha affermato Cia agricoltori italiani in una nota, evidenziando come “La misura non tiene conto delle garanzie di distanziamento sociale offerte dagli spazi in piena campagna”. Coldiretti avverte a sua volta che “è a rischio 1/3 della spesa alimentare degli italiani destinata ai consumi fuori casa con il moltiplicarsi di locali della ristorazione che decidono addirittura di non aprire per gli elevati costi e la mancanza di clienti”. Il mondo del vino non fa eccezione e Unione Italiana Vini, per voce del segretario nazionale Paolo Castelletti, afferma che “complice anche il nuovo lockdown serale, nel 2020 il vino italiano di qualità perderà il 30% delle proprie vendite nell’horeca nazionale. Secondo le stime del nostro Osservatorio, il mancato introito peserà quest’anno nelle casse delle aziende per un controvalore di 1,2 miliardi di euro”. Il conto dei danni è stato stimato anche da Gh, l’associazione dei grossisti horeca, che per voce del suo presidente Maurizio Danese (a capo anche di Veronafiere, organizzatore di Vinitaly), stima un’ulteriore perdita di 1 miliardo per le forniture al settore fuori casa, portando il conto totale a 8 miliardi di minori introiti. “Questa seconda ondata – ha affermato Danese – non mette a rischio solo la nostra esistenza, ma anche quella di migliaia di piccoli produttori italiani, che rappresentano la grande maggioranza delle nostre provviste. Il rischio di acquisizioni da parte di multinazionali straniere si sta moltiplicando e con il loro ingresso l’italianità a tavola ne uscirebbe stravolta”.