Il mondo ha fame di tartufo, e non ce n’è mai abbastanza. Per rimediare a uno shortage divenuto cronico, dato anche lo sviluppo internazionale della domanda, Urbani Tartufi ha lanciato nel 2017 il progetto Truffleland, mettendo a punto di un sistema completo per proporre ad aspiranti tartuficoltori un business ‘chiavi in mano’. A due anni dal lancio, i dati cominciano a essere interessanti: cinquantamila piante tartufigene già messe a dimora, altre 120 mila in arrivo per quest’anno. Un’opportunità per rilanciare l’agricoltura, ridando vita a terreni incolti attraverso un metodo sostenibile e reimpiantando foreste in grado di generare tartufi, che poi potranno essere venduti peraltro senza diritto di esclusiva al fornitore della materia prima e del know how ovvero la stessa Urbani.
Francesco Loreti Urbani, del gruppo Urbani Tartufi, illustra la ragione per cui è stato ideato il progetto. “Vent’anni fa – racconta – mio nonno andava al mercato settimanale di Norcia ad acquistare dai 4 ai 5 quintali di tartufo nero invernale. Quest’anno ne abbiamo raccolti mediamente 40 chili a settimana… il calo è stato drastico”. Ed ecco che il gruppo Urbani, leader mondiale di mercato con il 67% di market share, ha ideato e brevettato una tecnica, applicata sulle piante idonee alla produzione di tartufo, che assicura una micorizzazione al 70%, la più alta concentrazione di spore fruttifere rispetto alla media europea di mercato, garantendo così ampie possibilità di raccolto. La risposta attesa dai coltivatori (le piante saranno distribuite a marzo, ndr) è assicurata dalle possibilità di profitto, che lo stesso Loreti Urbani illustra in cifre: “Si parla di un giro d’affari annuale fino ai 30 mila euro netti per ettaro, per una durata di 20/25 anni, con costi gestionali inferiori a quelli di un campo di grano che di ricavi ne assicura cento volte meno, perché siamo attorno ai 230 euro per ettaro”.
Le piante tartufigene pronte per la distribuzione non daranno frutti prima di cinque anni, ma la famiglia Urbani già sta raccogliendo quelli provenienti dalle prime piante trattate con la tecnica brevettata e messe a dimora nei terreni di sua proprietà. Con questo metodo si aprono inoltre interessanti prospettive per la ristorazione, perché il titolare o lo chef potrà ‘adottare’ un terreno coltivato con le piante tartufigene di Urbani e ottenere il proprio raccolto. “Il progetto è partito dall’Umbria, ma stiamo per realizzare il primo impianto in Sicilia”, afferma l’esponente della famiglia Urbani.
Al momento, la tecnica di Urbani Tartufi assicura risultati per quattro tipologie di tartufo: nero invernale, nero estivo, moscato e bianchetto. Niente da fare, al momento, per il pregiatissimo Tuber magnatum pico (il cosiddetto ‘Bianco’), ma le ricerche sono in corso, quindi mai dire mai… Una volta raccolti, i tartufi possono essere destinati dagli agricoltori a chiunque essi vogliano darli, compresa la vendita alla ristorazione. “Non poniamo vincoli – afferma Loreti Urbani – ma se l’impianto diventa ingente e con esso il raccolto, sarà nell’interesse dello stesso cliente venderli a noi, saltando peraltro un passaggio distributivo perché chi si rivolge a noi non deve passare per il commerciante. Così facendo, aumenterà i propri ricavi”.
Urbani Tartufi ha un giro d’affari di circa 60 milioni e occupa circa 300 dipendenti tra i due stabilimenti in Umbria, quello di Alba e i due centri di distribuzione di Milano e Roma, a cui si aggiungono le attività di ristorazione a New York, Bangkok, all’interno del parco agroalimentare Fico Eataly World di Bologna e i numerosi “pop-up restaurants” che si trovano all’interno di tutti i punti vendita Eataly nel mondo. Il 2018 è stato un anno importante sotto l’aspetto economico: “La raccolta è stata abbondante, credo che alla fine il gruppo riuscirà a centrare un aumento del 20 percento”, conclude Francesco Loreti Urbani.