Quante attività nel campo della ristorazione hanno abbassato per sempre la saracinesca nel 2020? Contrariamente ad ogni aspettativa, l’anno segnato dalla pandemia e dalle chiusure serrate ha registrato il dato migliore degli ultimi dieci anni, con ‘solamente’ 22.692 imprese cessate nel settore. È quanto emerge dai dati di Movimprese elaborati dall’Osservatorio Ristorazione di RistoratoreTop, azienda di consulenza e formazione specializzata nel marketing per la ristorazione. Le cause, spiega a Pambianco Wine&Food Lorenzo Ferrari, direttore marketing di RistoratoreTop, che ha elaborato il Rapporto Osservatorio Ristorazione 2021, “sono molteplici, variegate e complesse ma il sentore più diffuso è che il 2020 sia combaciato con una sorta di ‘ibernazione’ delle attività ristorative, che grazie ad azioni quali il ricorso agli ammortizzatori sociali, i ristori ricevuti, il blocco dei pagamenti ai fornitori o la stipula di piani di rientro lunghissimi, il ricorso ad istituti di credito per iniezioni urgenti di liquidità e il taglio repentino dei costi sono in qualche modo riusciti a parare il colpo ed andare avanti”.
Considerando le geografie, Firenze, il cui numero di attività scomparse non è mai stato così alto come nel 2020, ha registrato -262 unità (+87% sull’anno precedente), Roma -1.518 (+25%), Palermo -228 (+13%), Milano -722 (+0,1%), mentre ‘reggono’ Napoli, con 342 cessate (nel 2019 erano 454) e Torino con 549 (nel 2019 erano 637). Nonostante ciò, nel 2020 le attività registrate sono 397.700, di cui attive 340.564, “entrambi numeri record nella storia italiana”, come riporta il rapporto.
Tuttavia, il 2020 è anche l’anno che ha registrato il numero più basso degli ultimi 10 anni di nuove attività avviate: 9.207. Il saldo tra le attività iscritte e quelle cessate è quindi di -13.485, “il secondo più negativo di sempre dopo il 2019 (- 13.794)”.
In ogni caso, “il vero problema è che centinaia di migliaia di attività vivono da 14 mesi uno stato di perenne tensione, indecise tra il cessare l’attività, prepararsi alle riaperture, darsi al delivery e al take-away o investire nuovamente per ripartire e rilanciarla”. Questi fattori “influiscono negativamente, anche dal punto di vista psicologico, su chiunque lavori nel settore. Insomma, il problema c’è, è grave e persiste, e la soluzione allo stesso viene soltanto rimandata al 2021 e agli anni successivi”. Per quanto riguarda il futuro, infatti, “i buchi nei bilanci e i danni passati influenzeranno negativamente questo e i prossimi anni”, prosegue Ferrari. “Serve tornare alla normalità in fretta, altrimenti il rischio è duplice: che i danni diventino insanabili e che, soprattutto, la ristorazione perda i professionisti che la popolano”.
Sempre per quanto riguarda il futuro, Fipe-Confcommercio, la Federazione italiana dei Pubblici esercizi, in collaborazione con Bain & Company e TradeLab, all’interno del ‘Rapporto Ristorazione 2020’, ha interpellato alcuni rappresentanti dell’industria, della distribuzione e della stessa ristorazione. Considerando il ritorno ai livelli di fatturato pre-covid, il 72% degli intervistati si divide equamente tra chi lo ritiene possibile nel 2022 (36%) e chi invece prevede uno slittamento al 2023 (36%). Il restante 27% pessimisti ritiene plausibile un ritorno a pieno regime solo nel 2024.
In generale, si legge nel rapporto di Fipe, la speranza è quella che l’effetto rimbalzo dei consumi fuoricasa nei prossimi 3-5 anni possa portare a un incremento dei consumi nei pubblici esercizi tale da superare i livelli del 2019. Per cogliere questa opportunità, gli addetti ai lavori hanno individuato due strade: puntare su un incremento dei servizi digitali, tra cui home delivery e take away, attraverso menù appositamente studiati; e puntare su un miglioramento della qualità, con una specializzazione identitaria in grado di garantire riconoscibilità a un bar o a un ristorante.