Il vecchio modello di pasticceria di quartiere non regge più. E intanto si affermano i primi brand, per quanto in ritardo rispetto ai competitor internazionali, francesi in testa. Gli esempi Rinaldini, Panarello, Massari e Biasetto.
C’era una volta il pasticcere di quartiere, interprete sorridente del ruolo di sacerdote delle feste comandate a misura di famiglia. Oppure c’era il forno artigiano, paradiso dei lievitati dolci e salati che entravano nella spesa quotidiana di tutti. C’era una volta la pasticceria con dimensione e mentalità artigiana. Oggi, mentre resiste a fatica nella trincea della microimpresa familiare, il concept tradizionale si trova a confrontarsi con realtà imprenditoriali che stanno cambiando l’universo pastry di casa nostra e con le maison straniere, francesi in testa, che approdano nel Belpaese portando un modello di esperienza più sofisticata e, forse, di maggiore forza in termini di marketing. Al tempo stesso, con un certo ritardo accumulato, stanno emergendo i brand italiani del settore in grado di replicare i format. E sono le stesse figure di riferimento della pasticceria italiana “replicabile” contemporanea a sottolineare i limiti del sistema-Italia, ma anche la volontà di trasformarli in opportunità. La parola-chiave è valore, inteso come combinazione di qualità e sostenibilità economica.
IL CASO MASSARI
Grazie anche alle presenze televisive, Iginio Massari è il più conosciuto tra i pasticceri italiani. La sua ultima iniziativa, avviata in collaborazione con Intesa San Paolo, riguarda Milano, dove ha preso possesso di uno spazio all’interno di una filiale della banca in piazza Diaz. E da questa prima apertura al di fuori di Brescia potrebbero derivarne altre, a partire da Roma. La replicabilità del format non è però una cosa banale. “La gestione di format richiede la capacità di dominare una produzione che ha una vita di 24 ore mantenendo la qualità alta – evidenzia il maestro pasticcere lombardo – e al momento l’Italia è lontana dal modello catena soprattutto perché la legislazione non ha ancora assunto un profilo definito, ad esempio nell’identificazione dei profili artigianali e industriali. Se non c’è differenza, ovvio che il grande si mangia il piccolo. Ma per esempio in Francia il gruppo Lenôtre fattura 135 milioni ed è considerato “artigianato” perché sviluppa manualmente oltre il 50% della produzione”. A fronte di un diverso quadro normativo, l’evoluzione possibile potrebbe replicare quella tedesca. “In meno di vent’anni la Germania è passata da oltre 15mila a meno di 1500 unità produttive, ma ciascuna di esse oggi serve 10 negozi. Forse in 10 o 15 anni l’Italia potrebbe esser così”, afferma Massari. Il confronto internazionale però non regge, a partire dalla formazione. “In Italia – aggiunge – non si è mai attivato il riconoscimento istituzionale dei titoli per l’insegnamento e non c’è un titolo di ‘maestria’, mentre in tutti i Paesi europei c’è un esame di merito dopo 5 anni di apprendistato fatto come si deve e in Francia ci vogliono 4 anni per avere il titolo di Meilleur ouvrier de France (MOF), assegnato in base ai meriti reali”. Guardando alle nuove generazioni, Massari comprende la ‘fuga di cervelli’ in atto nel settore pastry: “I giovani che vogliono fare questo mestiere sono positivi e propositivi, ma a volte trovano ostacoli tecnici sulla propria strada e allora se ne vanno”. L’evoluzione delle catene made in Italy potrebbe essere un incentivo a rimanere e trovare una nuova collocazione? È possibile. Pur muovendo critiche radicali al “sistema pasticceria” italiano e alle sue capacità di evolvere, Massari non si aspetta un’invasione di brand stranieri e sembra però convinto del fatto che l’italianità possa ancora fare la differenza. “Negli anni ‘60 e ‘70 a Milano c’erano Alemagna, Motta o Frontini che hanno fatto la storia della pasticceria mondiale. Al tempo facevano le monoporzioni da 80/100 grammi, la ‘pasticceria gigante’ che oggi i francesi chiamano dolci individuali. Quindi noi abbiamo l’inventiva, ma nella pratica vanno superate le difficoltà che vedono spesso i nostri artigiani andare appena oltre la copertura dei costi e questo non ha senso”.
BIASETTO E IL CO-BRANDING
Non sono troppo distanti le osservazioni di Luigi Biasetto, maestro esperto con base a Padova. “L’Italia è la culla della cultura gastronomica e la conoscenza dei prodotti di pasticceria appartiene all’esperienza in famiglia, decisamente lontana dalla tipologia di dessert che può esser gradita in Cina o Giappone”, rimarca il maestro padovano, che guarda con scetticismo alla prospettiva di possibili invasioni straniere, soprattutto perché “l’italiano è meno abbagliato dalla ‘fuffa’ e va in cerca della sostanza, non si fa illudere dal marketing fittizio”. I recenti exploit di professionisti d’oltralpe a Milano e a Roma si rivelano “un gigantesco buco nell’acqua – rincara Biasetto – e i vari Ladurée e Christophe Adam non possono aver successo se non capiscono che a Milano si mangiano panettone, bignè e cannoncino e che in Italia non basta il cioccolato per tener in piedi una struttura con i costi di gestione, personale, fisco che abbiamo”. Con l’attività dell’Atelier da 5 milioni di ricavi composto da sei reparti produttivi autonomi, dove il lavoro manuale è integrato da attrezzature e macchinari sofisticati, Biasetto ha sviluppato da tempo un processo virtuoso per la distribuzione della pasticceria fresca. “Non abbiamo voluto sviluppare catene in proprietà o in franchising. Preferiamo invece lavorare in chiave di co-branding e co-marketing: noi mettiamo il prodotto, i nostri partner sviluppano i negozi e le strategie di vendita”. Questo significa che la pasticceria firmata Biasetto si può trovare in spazi che replicano il negozio “madre” di Padova (con ristorazione, dolci e gelateria), ma anche in strutture autonome a Parigi, Lione o Edimburgo, oltre che nel menu privilege di Costa Crociere. “Serviamo ristoranti, hotel e golf club con prodotti brandizzati o meno – specifica il pasticcere – e abbiamo clienti in Svizzera come in Scozia o a New York, mentre a Londra siamo presenti con Illy”. La maison padovana sceglie dunque di concentrarsi sulla replicabilità di una qualità costante del prodotto, senza che questo debba stare dentro in format prestabilito. È dunque questo il futuro della pasticceria italiana? “Indubbiamente il piccolo artigianato andrà in frustrazione o in difficoltà – replica deciso Biasetto – e non riusciremo più a sostenere la pressione fiscale, la burocrazia di etichette e adempimenti che soffocano piccole realtà in cui lavorano madre, padre e figli. E potrà rimanere la fascia di mezzo, dove ci collochiamo noi, che grazie alla meccanizzazione e al digitale riesce a gestire le linee produttive ottimizzando i processi. Serve un progetto di business per rendere sostenibile il valore della nostra artigianalità”.
RINALDINI: IL PASTICCERE-IMPRENDITORE
È sulla dimensione business che si concentra l’approccio della pasticceria d’autore di Roberto Rinaldini che, dopo il concept store a Milano, a inizio estate ha inaugurato la sua terrazza alla Stazione Termini di Roma. «Ho aperto il primo locale a 22 anni e già sapevo che volevo far negozi e farne tanti”, sottolinea il pasticcere romagnolo. “Inizialmente si tratta di far conoscere il brand, ma soprattutto di processare bene tutte le produzioni ed essere costanti con il prodotto. Anzi, non mi accontento di mantenere la qualità e vorrei pure migliorarla. Da questo nasce il progetto del nuovo laboratorio, composto da 8 unità interne per le lavorazioni specifiche, ciascuna con le proprie macchine e personale dedicato”. Il marchio Rinaldini (8 milioni di ricavi annui) deve essere una garanzia di qualità, ma si rispecchia anche in un ambiente accogliente, moderno e sofisticato, in location selezionate. “Incarniamo il lusso del made in Italy, ma fondamentalmente alla portata di tutti – afferma con convinzione il pasticcere – perché in un ristorante stellato si può andare una volta all’anno e non è per tutti, ma una brioche a lievitazione naturale o un cappuccino fatto bene sono scelte quotidiane, così come un panino gourmet preparato sul momento”. Non è però un gioco da solista. “Sono partito coinvolgendo persone di cui mi fidavo in ogni settore – chiarisce Rinaldini – perché questa è una macchina che si muove sulla produzione, ma anche su marketing, ricerca di location di pregio, rapporti con i mondi della moda o della finanza. Il pasticcere evoluto è imprenditore, deve guidare un team qualificato, deve conoscere le linee di produzione e i costi. Pur se bravissimo, non può stare 16 ore in laboratorio e poi magari non sa quanto costa produrre una brioche e quali marginalità porta. Si dovrebbe lavorare sempre al massino delle potenzialità anche per ridurre i costi: gli artigiani in Italia fanno spesso l’errore di avere 100 tipi di prodotti, ascoltando i clienti, mentre dobbiamo razionalizzare come fanno i francesi. Altrimenti è un bagno di sangue”. L’ingresso di brand stranieri sul mercato italiano appare a Rinaldini come uno stimolo. “I francesi sono più imprenditori e hanno percepito una tendenza di mercato che da noi sta emergendo solo ora. Poi in Francia l’elettricità costa meno e le tasse sono più basse, mentre in Italia è più difficile gestire un sistema complesso”.
NO AL PROGETTO INDUSTRIALE
I progetti simili a quelli di Rinaldini sono “eccellenze solitarie”, evidenzia Mario Esposito, specialista retail e consulente strategico del maestro pasticcere riminese. “Rinaldini è una eccellenza assoluta e al nostro primo incontro, 18 mesi fa, ha manifestato la volontà di evolversi e conquistare posizioni di mercato in Italia e all’estero. E allora il genio non basta. Oltre ad evolvere sul progetto di sviluppo retail, abbiamo coinvolto un investitore, l’imprenditrice del settore energetico Michela Dionigi. Le eccellenze solitarie hanno bisogno di managerialità per evolvere e affermarsi”. Esposito si dice convinto delle possibilità per la pasticceria italiana a livello globale. “Purché – precisa – il focus rimanga sulla qualità. Dopo Sigep e Mapic ci hanno proposto un centinaio di aperture nel mondo, anche con partner dalle capacità finanziarie enormi, però con Rinaldini abbiamo deciso di rallentare: anziché farsi allettare da un facile fatturato, è importante garantire il livello del prodotto. Perché non si può pensare alla replicabilità come in un progetto industriale”. E allora in ogni Paese deve esserci un laboratorio centrale e in ogni “negozio” un laboratorio locale, con un team dedicato e pienamente formato.
FORMAZIONE E SVILUPPO
È all’insegna dell’espansione in Italia e all’estero anche la strategia di Panarello. La pasticceria genovese da 13 milioni di ricavi, nata nel 1885 è alla ricerca di location per l’ampliamento della sua rete di punti vendita nel Belpaese, che attualmente sono 13. “Il format sarà quello della pasticceria con caffetteria, come accade già a Milano, in grado di ospitare una maggiore clientela all’interno del locale”, riferisce Chiara Carrara, responsabile marketing. “Inoltre lavoriamo al restyling dei negozi storici di Genova attraverso un rinnovamento degli spazi e degli arredi”. Panarello è organizzata in due divisioni: una distributiva e una produttiva, che in un anno crea oltre 200mila kg di pasticceria fresca e oltre 600mila kg di prodotto confezionato, su cui è centrato il progetto di internazionalizzazione della maison ligure. La tendenza evolutiva si conferma anche sul fronte della formazione specialistica. «La pasticceria è sempre più un’arte che ha a che fare con la precisione – evidenzia Federico Pendin di Dieffe accademia delle professioni – e nei nostri corsi ai approfondiscono chimica e microbiologia, perché se non conosci a fondo gli ingredienti non puoi salire di livello. E dato che i pasticceri devono essere anche imprenditori, noi li formiamo anche sullo sviluppo di un business plan e sulla contrattualistica, sull’analisi dei costi e sul marketing».
di Giambattista Marchetto