Jian Sun, direttore generale del gruppo cinese Changyu, indica un vino, esposto in bella vista nello stand a Prowein. Si chiama Changyu Noble Dragon ed è l’etichetta più venduta al mondo. “Lo scorso anno ne sono state prodotte 430 milioni di bottiglie” afferma il deputy general manager della più grossa azienda cinese di settore, che possiede otto tenute in patria e tre all’estero per un totale di 20 mila ettari di vigneto di proprietà. La sua quota, nel wine business interno, è schiacciante: da sola realizza il doppio del fatturato dei tre successivi player. Il giro d’affari 2014 è stato pari a 4,15 miliardi di renminbi, pari a 575 milioni di euro al cambio attuale. Tra i soci, c’è un gruppo italiano. Si tratta di Illva Saronno Holding, azionista di maggioranza con il 33% delle quote sociali. Dal 2013 a oggi, Changyu ha avviato una serie di acquisizioni estere assicurandosi la proprietà della Roullet-Fransac Cognac, seguita lo scorso anno con quelle di Chateau Mirefleurs in Francia e di Marques Del Atrio in Spagna. Inoltre, Changyu ha la proprietà esclusiva per la Cina dei vini del gruppo emiliano Donelli, noto per il lambrusco, di cui, sostiene Jian Sun, lo scorso anno ha importato e distribuito 50 container, pari a circa 800 mila bottiglie. Ci sono in cantiere nuove acquisizioni, magari in Italia? “Ne stiamo parlando, proprio in questo periodo, con l’azionista di maggioranza” afferma il general manager.
Per quanto riguarda la Cina, Jian sostiene che il consumo di alcolici si sta riprendendo dopo tre anni difficili. “Alcune decisioni governative, tra cui la legge anticorruzione, hanno frenato lo sviluppo del vino nel nostro paese – dichiara a Pambianco Wine – così i consumi, dopo aver raggiunto il picco nel 2012, sono scesi progressivamente. Il 2015 però ha segnato l’inversione di rotta, con un incremento del 10%, e sono convinto che anche il 2016 sarà caratterizzato da una crescita”.
Jian sostiene che i vini italiani abbiano le carte in regola per imporsi in Cina, a patto che aumentino gli investimenti delle imprese per far conoscere il prodotto tra i consumatori. “I cinesi non hanno familiarità con i nomi dei vini italiani, perciò stentano ad avvicinarsi. I francesi, probabilmente perché dotati di maggiori risorse, hanno investito di più e in maniera efficace. Occorrerebbe più decisione, è sbagliato rinunciare al primo tentativo fallito”.