Nel 2018 Pechino ha importato vino italiano per poco più di 142 milioni di euro: la quota di mercato è del 5%, contro il 40% dei francesi (che però scendono). Troppo poco, anche se stiamo facendo meglio dei competitor. E intanto Vinitaly prepara una sua presenza diretta
di Fabio Gibellino
A marzo, la visita del presidente cinese Xi Jinping in Italia ha portato con sé il gemellaggio delle zone vitivinicole di Langhe-Roero e Monferrato con quelle dei terrazzamenti del riso di Honghe Hani, nella regione cinese dello Yunnan. Per Gianfranco Comaschi, presidente dell’Associazione per il patrimonio dei paesaggi vitivinicoli di Langhe-Roero e Monferrato: “La finalità del gemellaggio è dare impulso allo sviluppo dei due siti Unesco, favorendo la cooperazione nei settori del turismo culturale e creativo, dell’agricoltura, dell’economia, del commercio, e della sostenibilità”. All’atto pratico, questa nuova liaison porterà alla promozione di scambi culturali, seminari e convegni, progetti di ricerca e di studio su argomenti di comune interesse e condivideranno i materiali divulgativi e pubblicitari. In sintesi, significa che i cinesi, sempre che il tutto venga sfruttato a dovere, arriveranno conoscere meglio la qualità dei vini piemontesi. Cosa che nel resto del mondo è data quasi per scontata, nell’ex Celeste impero no.
LIMITE CULTURALE
Se guardiamo ai dati della ricerca prodotto da Wine intelligence/MarketIQ-Vinex, tra i consumatori cinesi di vino nella fascia medio-alta si scopre che solo il 17% conosce il Barolo. Un dato che ha dell’incredibile e che punta il dito contro evidenti lacune in termini di marketing e comunicazione: perché l’alternativa sarebbe quella di mettere in discussione il contenuto delle bottiglie. Certo quello all’ombra della Grande muraglia è un mercato ancora sui generis, basta pensare che nella top-30 della classifica stilata dalla società britannica, è sì vero che la Francia è dominatrice, con Bordeaux (52%) prima denominazione, Provence (40%) terza, Vin e Pays d’Oc (39%) quarta, e Bourgogne (38%), quinta. Però la seconda è rappresentata dalla locale Ningxia (43%), mentre la sesta è sorprendentemente la Sicilia (36%) che è anche davanti alla Champagne (36%). Per scovare le altre italiane poi bisogna scendere al quindicesimo posto con una generica Toscana (20%), al ventiquattresimo posto, per l’appunto, con Barolo e al trentesimo con Chianti (14%). Non è tutto, perché come ha sottolineato Denis Pantini, direttore area agricola e industria alimentare di Nomisma: “Tra i consumatori di vino cinesi, sette cinesi su dieci non sono in gradi di indicare una denominazione”.
RECUPERARE TERRENO
Ecco perché quello del gigante asiatico non è a oggi un’opportunità colta nella sua pienezza. Basta dare uno sguardo ai dati dell’Osservatorio Vinitaly-Nomisma wine monitor su base doganale, che indicano in 142,3 milioni di euro il valore delle vendite di vino italiano in Cina. Un dato che non può essere considerato soddisfacente, soprattutto se confrontato con i 903 milioni di euro incassati dalla Francia e con i 660 milioni di euro raccolti dall’Australia. Pochi anche considerando il Cile, terzo con 306 milioni di euro, e la Spagna, che ci sopravanza per poche migliaia di euro (143,1 milioni di euro). Certo, Australia e Cile godono del vantaggio dato dall’assenza di dazi d’importazione, però c’è l’impressione che se i rapporti tra Xi Jinping e Donald Trump fossero migliori, anche gli Stati Uniti starebbero davanti all’Italia. Detto questo, tutto sommato il 2018 è stato un anno positivo per il vino tricolore, sia per la crescita del prezzo medio delle bottiglie, sia anche per il valore delle esportazioni rispetto al calo a doppia cifra fatto segnare dalla Spagna e alla flessione degli stessi produttori francesi. Resta però il rammarico di vedere l’Italia vendemmiare solamente il 5,9% degli oltre 2,4 miliardi di euro totali a cui ammonta l’import della Cina, considerando che i cugini d’Oltralpe sono intorno al 40%. Non a caso, a suo tempo, Amedeo Scarpa, direttore dell’ice di Pechino, aveva dichiarato che: “Dobbiamo sempre recuperare un ritardo di decenni, ma se guardiamo al trend, negli ultimi tre anni rispetto ad altri competitor europei siamo andati meglio”. Aggiungendo che: “Siamo all’inizio di un recupero guardando soprattutto alla Francia, però ci sono Cile e Australia che vanno molto forte grazie agli accordi bilaterali a dazio zero”. Aspetto che però che assume un significato più importante per le bottiglie di prezzo che non per quelle dell’alto di gamma.
NON SOLO BAD NEWS
A spegnere un po’ la vis polemica è però lo stesso Denis Pantini, che racconta: “In realtà l’Italia è cresciuta molto negli ultimi periodi”. E che certo, “il mercato delle etichette di prestigio è francese, e a parte pochissimi, tutti gli altri soffrono”, ma soprattutto, e al di là della solita affezione a ritardi strategici e polverizzazioni varie, “l’Italia ha un patrimonio vinicolo invidiato, però spingere vini autoctoni in un mercato quasi vergine non è così facile, soprattutto rispetto i grandi internazionali”. E allora, continua Pantini, “il problema è che il vino italiano non è conosciuto, conseguentemente l’approccio delle aziende potrebbe essere sovrastimato e non corretto”, anche se, “la Cina ha numeri così alti di potenziali consumatori che ci vuole poco per crescere velocemente, in particolare guardando al mercato online, che potrebbe essere un buon punto di contatto tra produttore e consumatore, ma certo bisogna prima farsi conoscere”. Per Giovanni Geddes da Filicaja, ceo del gruppo Frescobaldi, “vedere la Francia con oltre il 40% e l’Italia poco oltre il 5% significa solo che c’è molto da fare, a partire dall’immagine, perché, come succede anche in altri settori, i prodotti francesi sono visti come lusso, mentre quelli italiani come fashion, più di tendenza”. E allora ecco che: “Noi come Frescobaldi abbiamo intenzione di espanderci su quel mercato, e lo faremo con strutture differenti e complesse a seconda delle etichette, non solo con un unico importatore”. Anche Francesco Zonin, vicepresidente di Zonin1821, fotografa in modo autocritico la situazione asiatica: “Come azienda disponiamo di tre filiali estere. Con quella nel Regno Unito raccogliamo circa 32 milioni di sterline, negli Stati Uniti 75 milioni di dollari, in Cina 3 milioni di euro che, rispetto al potenziale, sono una miseria”. Spiegando però che, “la Cina non è solo difficile da capire, è anche difficile da fotografare, è un paese interessante, così sfuggente che diventa una sfida, perché se siamo riusciti ad avere successo ovunque dobbiamo riuscirci anche lì”. Solo che serve una marcia in più, “Perché sta avendo dinamiche distributive simili a quelle americane, solo che invece che impiegarci 50 anni lo hanno fatto solo in cinque”. Il tutto con un occhio rivolto ai distributori: “In Cina stanno avendo lo stesso ruolo che hanno avuto negli Usa, con fusioni e acquisizioni che portano loro ad avere bacini da 100 milioni di consumatori bypassando l‘importatore classico, il cui ruolo sarà altro grande punto di domanda”.
UN’ALTRA COMUNICAZIONE
Secondo le tesi più comuni, oggi in Cina a consumare vino sono circa 38 milioni di persone, cioè poco più del 2% dell’intera popolazione (1,386 miliardi). Dato che da una parte spiega come la sua rincorsa l’abbia portata ormai a ridosso dei tre più grandi importatori mondiali, Usa, Regno Unito e Germania, ma dall’altra è indice di un potenziale enorme. Soprattutto considerando il consumo pro-capite che oscilla tra gli l,3 e l’1,5 litri, nulla considerati gli oltre 44 litri bevuti dagli italiani, se non fosse però che la media è calcolata sulla totalità della popolazione. Restando fermi sul presente, i migliori consumatori cinesi sono i Millenials e la Generazione Z, mentre la prevalenza di genere è femminile. Si tratta quindi di un parco clienti che rispetto ai predecessori ha bisogno di una formula comunicativa diversa. E allora ecco che i piani di sviluppo condotti da Ice in collaborazione con Mise, Unione Italiana Vini e Federvini e che guardano con riguardo al digital marketing potrebbero rivelarsi la mossa vincente. Dove gli accordi con Alibaba e le attività di influencing su Wechat e Weibo vanno visti come un primo passo. Perché l’Italia non può permettersi di perdere la sfida con quello che, da qui a dieci o quindici anni, potrebbe essere il più grande mercato del mondo. E non lo può fare soprattutto per rispetto della qualità del vino che è in grado di produrre. Anche per questo, si attendono azioni concrete da Vinitaly, pronto a intervenire con una propria piattaforma nel Paese più popoloso del mondo. Qualche novità dovrebbe essere preannunciata proprio durante la fiera di Verona.