I nuovi trend del vino abruzzese si fondano sui vitigni autoctoni. Dal rosé grintoso del Cerasuolo d’Abruzzo al Pecorino, nato come alternativa al Trebbiano d’Abruzzo, fino agli spumanti metodo classico e charmat
di Alessandra Piubello
La peculiarità dei vitigni autoctoni abruzzesi, valorizzata da una nuova generazione di enologi e d’imprenditori vitivinicoli, suscita sempre più interesse nei mercati. I trend dominanti riguardano il Cerasuolo d’Abruzzo, il Pecorino e gli spumanti da uve autoctone.
ROSA DI TRADIZIONE La doc Cerasuolo d’Abruzzo giunge nel 2010, ottenendo finalmente una sua specificità rispetto alla Doc Montepulciano d’Abruzzo che precedentemente la includeva. Il Cerasuolo è da sempre il vino della tradizione contadina abruzzese e si presentava sempre più scuro rispetto a tutti i rosati della Penisola. Ha la grinta di un rosso e la fresca beva di un rosato. Un vino non incasellabile, la cui matrice di frutto è data dal visceralmente abruzzese Montepulciano. “Per noi – spiega Luigi Cataldi Madonna, vignaiolo-filosofo dell’omonima azienda agricola con sede a Ofena da 100 anni, una delle poche realtà produttive dell’Aquilano – era il rosso ‘mascherato’ di casa. Il vino rosa non deve essere prodotto con la tecnica doppiogiochista del salasso che non fa parte della tradizione abruzzese (noi usiamo una tecnica antica, la “svacata”); perchè non si fa qualità. Bisogna iniziare dalla campagna, dedicando delle vigne solo al vino rosa”. La produzione complessiva dell’azienda è 230mila bottiglie e il 25% è dedicato ai tre vini rosa. “Negli ultimi due anni abbiamo visto una crescita del 20% sui rosa, e anche se è un vino che viene normalmente venduto di più in Italia anche all’estero, cominciano ad apprezzarlo particolarmente negli Usa, dove abbiamo registrato nel ‘19 un 5% in più di vendite”. Stefano Papetti Ceroni, titolare insieme alla moglie della De Fermo con sede a Loreto Aprutino, inizia 10 anni fa con l’attività. “Negli ultimi anni – afferma – stiamo assistendo a una rinascita del Cerasuolo di personalità, espressione della sua vocazione che ritengo sia quella gastronomica. È un vino eclettico che si abbina a tutto pasto, anche alla pizza. Noi dedichiamo a questo vino il 15% del nostro totale di 80mila bottiglie. Il futuro è roseo, anche all’estero”. “È il vino della tradizione – rincara Francesco Cirelli, titolare dell’omonima azienda fondata ad Atri nel 2008 – ed è autenticamente abruzzese. Nella nostra regione fra mare, collina e montagna, usiamo tre tipi di cucina differente e il Cerasuolo è l’unico vino che si combina bene con tutte. Dal 2011 lo produco in anfora, in 12mila bottiglie delle quali un 30% va all’estero, che non è un mercato facile perché è un vino che va spiegato. Tra Italia, dove in Abruzzo il consumo è preponderante, ed estero è in costante crescita, alla media del 5% l’anno”.
L’ACIDITÀ DEL PECORINO Il primo a piantare Pecorino in Abruzzo fu Luigi Cataldi Madonna, nel 1996. “Cercavo un’alternativa al Trebbiano – confida il professore – e rimasi colpito dall’acidità di questo vitigno, caratteristica che cerco nei vini. Dopo vari tentativi d’interpretazione, abbiamo capito che la vinificazione adatta è in riduzione. Attualmente produco due Pecorino, in purezza e biologici, come tutti i nostri vini, Giulia e Super Giulia, ricavati da circa 6 ettari, per una produzione di circa 30-35mila bottiglie. Ritengo che il Pecorino sia uno dei migliori bianchi italiani”. Fausto Albanesi fonda con la moglie Adriana Galasso nel 1999 Torre dei Beati a Loreto Aprutino. Crede talmente nel Pecorino che acquista appositamente 5 ettari nel 2004 per piantarlo (all’epoca erano 70 gli ettari totali in regione). “All’inizio – spiega Albanesi – lo conoscevo per l’acidità e la concentrazione zuccherina, poi ho scoperto che pur producendo poco è molto costante ed è resistente, aspetto fondamentale per me che lavoro in bio. Ne propongo una versione in acciaio, ‘Giocheremo con i fiori’ e una in barrique non nuove, ‘Bianchi grilli’: sono il 25-30% sul mio totale di 120-130mila bottiglie. Dà vita a vini longevi, però va atteso, non si può uscire a novembre!” Una visione, quest’ultima, condivisa anche da Rocco Pasetti, fondatore di Contesa a Collecorvino nel 2000. “Il Pecorino – conferma – ha bisogno di affinamento, il minimo è uscire a marzo. Per apprezzarlo nella sua pienezza occorrono però 3-4 anni. Credo molto nel Pecorino, è il più completo tra i bianchi autoctoni abruzzesi. Su 430mila bottiglie, il 35% è destinato ai miei due Pecorino, uno in acciaio e l’altro in barrique, per soli due mesi però, perché oltre il legno rischia di snaturarlo”.
METODO CLASSICO Tra le novità più recenti compare lo spumante da uve autoctone, a cui l’Abruzzo si sta dedicando con il conforto di un trend di consumo in ascesa. Per il momento rappresenta il 2% della produzione regionale. Il primo a realizzare un metodo classico in Abruzzo, nel 1983, fu Giovanni Faraone, pioniere nel mondo del vino della sua regione e scomparso l’anno scorso, utilizzando la Passerina. L’azienda Faraone, cogestita dal 2014 con il figlio Federico, attuale proprietario, è a Colleranesco. Sempre nell’ambito dei metodo classico, è interessante la storia di un piccolo artigiano, Fausto Zazzara, con una passione viscerale per il metodo classico monovarietale, che dopo 13 anni di attività a Tocco, fa società al 50% con la cooperativa Progresso Agricolo di Crecchio per portare avanti il suo progetto (10mila bottiglie). Un’altra cooperativa, la Eredi Legonziano, fu la prima a produrre all’interno della doc Abruzzo, svolgendo tutte le fasi della produzione in regione, un metodo classico a base di Pecorino, Passerina, Cococciola, Montonico (10mila bottiglie). Dal 2012 hanno iniziato a produrre anche metodo italiano, con proprie autoclavi, per 60-70mila bottiglie.