Il food delivery si è imposto in Italia con un tasso molto rapido di crescita: a fine anno si avvicinerà ai 600 milioni di ricavi. Le società specializzate sono diventate un partner per la ristorazione, con una forte componente di consulenza. Le loro aspettative dalla controparte? Un atteggiamento più propositivo
Il food delivery in Italia è una recente scoperta e, in quanto tale, procede con un trend di crescita quasi esponenziale. Se è vero che, nella classifica Euromonitor sul consumo out of home, il Belpaese occupa il terzo gradino del podio (dopo Spagna e UK) con una dimensione di mercato pari a 73 miliardi di euro, è altrettanto evidente e consequenziale il potenziale di sviluppo del delivery, a cominciare da Milano. Se il 2018 ha registrato una crescita del 70%, arrivando a 350 milioni di euro complessivi, gli ultimi dati dell’Osservatorio eCommerce B2c (Politecnico Milano e Netcomm) confermano l’impennata del comparto, che nella prima parte del 2019 ha registrato un +56% e si stima che possa raggiungere quota 566 milioni di euro a fine anno. Dialogando con i maggiori player del settore, emergono crescite importanti oltre le due cifre.
MERCATO ENORME
“Probabilmente il segmento è ancora piccolo, perché abbiamo tradizioni culinarie leggermente differenti rispetto ad altri Paesi, per cui il valore che ha per noi un pranzo o una cena è speciale” osserva Matteo Pichi, ex country manager di Glovo e oggi alla guida di Poke House. “Eppure il mercato della ristorazione in Italia è enorme e le grandi società internazionali sono già arrivate a investire sul segmento food, che nel nostro Paese ha sicuramente possibilità di espansione grandissime”. A piccoli passi, prima Milano e poi l’Italia sono cresciuti a ritmi accelerati. “Per i ristoranti è nata un’opportunità in più per arrivare a contatto con il cliente – prosegue Pichi, che è anche segretario generale di Assofooddelivery, l’associazione costituita tra gli operatori del comparto – ed entrare in casa delle persone è una grande occasione per essere provati e poi magari riprovati in sala. E non parliamo solo di strutture complesse o di fama, ma anche di piccoli ristoratori che all’interno di una app hanno lo stesso livello di evidenza delle grandi firme”. Il caso Poke House è un modello di business che ha nel proprio Dna le peculiarità di questo segmento. E questo successo nasce dall’esperienza del gruppo di Pichi dall’altro lato della filiera. “Siamo nati come dei signor nessuno, ma per fortuna le persone hanno provato il prodotto, così i tassi di ritorno e le sequenze di utilizzo sono altissime e noi ci troviamo tra i primi 5 ristoranti in Italia nel mondo del delivery. Non sarebbe mai successo se non fossimo andati online”. Presente su 3 piattaforme principali – Uber Eats, Deliveroo e Glovo – il gruppo che propone il piatto hawaiano più amato del momento è cresciuto a ritmi di +50% mese su mese. Le aziende di food delivery sono oggi realmente un partner per la ristorazione, tanto che la spinta a lanciare Poke House è venuta per Pichi proprio dall’esperienza in Glovo. “Come country manager in Glovo ho avuto a possibilità di vedere quanto le società di delivery stessero investendo sui ristoranti. Investono in comunicazione e marketing, ma chiedono una relazione forte con gli imprenditori-ristoratori, per compiere un percorso assieme. Cercano interlocutori capaci di rispettare le esigenze del delivery, di consegnare rapidamente i pasti ai corrieri, di esser super-pronti. E dato che io ho sempre avuto una passione per la cucina e la ristorazione, ho colto la sfida e mi son fatto allettare dall’idea di stare dall’altra parte della barricata”. Il termine “bellicoso” non è del tutto metaforico, perché il fondatore di Poke House sottolinea anche i rischi legati alla dipendenza generata dalle società di delivery. “Se un terzo del tuo fatturato viene dal delivery, di fatto stai affidando ad un soggetto terzo una parte importante del tuo successo. Ecco perché qualcuno vede dei rischi nella relazione tra i due mondi, ma in realtà è necessario che la ristorazione non sia un soggetto puramente passivo. Se guardo a 5 anni, devo pensare che il nostro fatturato non possa dipendere solo da terzi”. E dunque il rafforzamento del brand deve essere un focus per i ristoratori, anche quando sono nel mare magnum delle piattaforme di food delivery.
DELIVEROO E LA CONSULENZA
In Italia, Deliveroo ha chiuso il 2018 con un fatturato complessivo di 21,9 milioni di euro, con una crescita dei ricavi da vendite e servizi del 130% (14 milioni contro i 6,1 del 2017) e nel 2019 si conferma in posizione di leadership sul mercato italiano con una presenza capillare in 89 città (che saranno 150 entro la fine dell’anno). “Prima del lancio del delivery, facevano le consegne solo i ristoranti con propri fattorini ed erano soprattutto di livello medio-basso, non certo i ristoranti che lavoravano sui clienti ai tavoli – evidenzia Matteo Sarzana, direttore generale di Deliveroo Italy – e questo perché i ristoranti fanno bene il loro mestiere ovvero preparano grandi piatti e si prendono cura degli ospiti, ma non è nella loro natura gestire la complessità della logistica”. La sensibilità italiana è sembrata presto incline all’innovazione. “Il primo ristorante entrato nella piattaforma a Londra era l’italiano Rossopomodoro – rimarca Sarzana – e se all’inizio questa cosa nuova è stata vista con scetticismo, tutto è cambiato quando i ristoratori si sono accorti dell’opportunità incredibile di metter uno dei loro tavoli a casa dei clienti”. Certo rimaneva un dubbio: verrà poi ugualmente la gente al ristorante? “Dopo i primi anni, queste preoccupazioni sono state smentite dai numeri – dice il dg Deliveroo – che dimostrano come le revenues dei ristoranti entrati nel servizio di delivery crescano due volte più degli altri. Perché è un’abitudine di consumo diversa e mangiare a casa non sostituisce l’esperienza di mangiare fuori casa. È dunque una fetta di mercato che si aggiunge nel business dei ristoranti, per i quali noi oggi valiamo una fetta considerevole degli introiti, dal 30 al 40% degli incassi”. E questo perché cambia anche il modello di espansione dei ristoranti: se prima l’unica possibilità era allargare i locali per aggiungere posti a sedere, “oggi l’espansione si può realizzare proponendo un menu dedicato al delivery e si risparmiano nel contempo i costi fissi”, chiosa Sarzana. Da Deliveroo sottolineano il ruolo di consulenza verso le imprese. “Se prima le scelte derivavano dall’intuito del ristoratore – prosegue Sarzana – oggi noi possiamo fornire dati sui consumi, sul pricing, sui piatti ordinati. Li aiutiamo a migliorare le loro performance strutturando un’offerta che sia più appealing per il nostro target. E talvolta ci spingiamo fino a creare dei virtual brand: se ho un ristorante sushi, con ingredienti simili posso coprire una linea poke. Noi possiamo studiare packaging, pricing, ingredienti”. Ad oggi questi brand in Italia sono già 150, ma vengono sviluppati con i ristoratori, perché “noi non vogliamo sostituirci in quel ruolo specifico, noi facciamo un mestiere diverso che è la logistica”. Attualmente Deliveroo collabora con 8500 ristoranti in 89 città, dove dichiara di aver portato business aggiuntivo. Per la ristorazione e per tutta la filiera. “Una ricerca sviluppata con Capital Economics ha stimato che entro il 2020 l’impatto in Italia solo di Deliveroo in questo mercato porterà alla creazione di quasi 6mila posti di lavoro per indotto, con un giro d’affari di circa 130 milioni in più rispetto ad oggi”, conclude il dg.
SPERIMENTAZIONE IN PROVINCIA
Lavorando nella provincia italiana, per Foodracers la cosa più difficile è stata quella di imporre un servizio nuovo, inatteso al di fuori delle città. “Pensavano tutti che fosse un miraggio per le metropoli – racconta il fondatore e CEO Andrea Carturan – e dunque inizialmente è stato complicato convincere i ristoratori delle opportunità di questo nuovo business. Abituati da sempre a lavorare con la sala, erano diffidenti. Adesso che sono passati quattro anni, vedi che la mentalità è molto cambiata, tanto che sono gli stessi imprenditori che chiedono il servizio e si informano sull’inserimento nella piattaforma”. Succede dunque che a volte ci siano richieste da città non coperte e quando non sono sporadiche è un ottimo segnale per la startup trevigiana, perché indica un nuovo mercato da aprire. Ed è anche grazie a questo processo che oggi Foodracers copre 43 città dove intesse relazioni con oltre 1300 ristoranti e serve più di 120mila clienti, crescendo per volumi e per fatturato (che nelle previsioni per il 2019 dovrebbe superare 1,15 milioni di euro). Qual è dunque il trend del settore? “Oggi gli stessi ristoranti si stanno spremendo le meningi per cercare di fare cose nuove”, evidenzia Carturan. “Nelle città di provincia non c’è la varietà di ristorazione che puoi trovare nei grandi centri, ma ovviamente se va di moda il poke chi fa giapponese si ‘inventa’ la linea poke solo per il delivery, dato che molti ingredienti sono comuni”. Una sorta di meccanismo da dark kitchen che sembra funzionare: “Abbiamo fatto questo esperimento in tre città e va molto bene, tanto che a Treviso un imprenditore ha deciso di aprire un locale dedicato. In fin dei conti, con l’online abbiamo dato loro la possibilità di non rischiare, ma nel frattempo di testare la reazione dei clienti verso una specifica proposta culinaria… se è positiva, poi possono fare scelte di business più strutturate”. Foodracers conferma un’attitudine all’innovazione orientata al rapporto con clienti e ristoratori, come nel caso del programma “fidelity” che sta facendo felici i locali: se infatti i clienti del delivery hanno la possibilità di provare i ristoranti con offerta scontata, ne guadagnano tutti gli attori della piattaforma. E nel frattempo l’atteggiamento del cliente stesso è cambiato: “se all’inizio non gradivano i costi di consegna, ora capiscono che è un servizio ad alto valore aggiunto”. Il mercato allora si allarga e anche Foodracers conferma le proiezioni in espansione, puntando al raddoppio delle città entro il 2020.
Giambattista Marchetto