Lo scontro in atto all’interno di alcuni consorzi riflette le diverse strategie di posizionamento. L’uscita è la conseguenza naturale dell’impossibile convivenza. Esistono situazioni belliche (Oltrepò, Valpolicella) e casi virtuosi (Trentino, Langhe), ma spesso la vera differenza dipende dalla prevalenza o meno del modello cooperativo
Le recenti evoluzioni e tensioni in seno ai Consorzi hanno aperto interrogativi che vanno oltre le beghe tra competitor chiamati alla mediazione politica, portando allo scoperto invece visioni e prospettive contrastanti. In particolare, le regole definite dalla normativa sull’organizzazione consortile non prevedono il principio “una testa-un voto”, perché le aziende hanno un voto “pesato” sui volumi di produzione e di imbottigliamento. Ed è in questo contesto che si sono create progressivamente frizioni tra le anime che compongono le denominazioni e in particolare tra aziende private e cooperative. Il peso significativo della cooperazione in Italia, più marcato in alcune regioni, ha spinto talvolta produttori del pedigree storicamente riconosciuto o comunque orientati all’eccellenza a contrastare la tendenza al ribasso (del prezzo) o al rialzo (della densità di produzione), attribuito al mondo cooperativo. Le differenze di visione hanno portato a gesti eclatanti, su tutti alla spaccatura in seno alla Valpolicella, con la costituzione del gruppo Famiglie dell’Amarone e la denuncia successiva da parte del Consorzio. Ma anche alla crisi dell’Oltrepò Pavese, dove 15 aziende sono fuoriuscite per l’assenza di “politiche di rinnovamento orientate alla ricerca della qualità”. D’altra parte, non è tutto bianco o nero: ci sono aree in cui le realtà cooperative hanno garantito lo sviluppo di eccellenze qualitative e altre in cui si è scelto di puntare tutto sul prezzo. Il perno del confronto è essenzialmente il focus sul valore. È evidente infatti che se una produzione “massificata” invade il mercato con prezzi al ribasso, può rimetterci l’intera denominazione, che come un “brand territoriale” è allo stesso tempo un patrimonio condiviso. L’equilibrio tra le diverse anime ha dunque a che fare con il bilanciamento delle strategie, ma anche con l’evoluzione verso un approccio business oriented centrato sul valore stesso. Pambianco Magazine Wine&Food ha raccolto alcune voci per cercare di fare sintesi sulla (necessaria) evoluzione della visione strategica in seno ai Consorzi. I casi sono diversi, esattamente come è diversa la vocazione delle coop nei differenti territori. Molto dipende dall’equilibrio interno, perché laddove la presenza della cooperazione è predominante, diventa difficile per un privato posizionarsi in maniera diversa rispetto al valore e all’immagine della denominazione. Alla fine il punto cruciale è il peso dominante della denominazione rispetto al brand aziendale, tipico del wine&food e sconosciuto in altri ambiti del lusso: ed è naturale che i privati, laddove la doc o la docg non offre un’idea di valore, debbano investire tutto sul proprio brand, entrando in contrasto con le logiche schiaccianti del prezzo basso e dei grandi volumi.
OLTREPÒ, DIFFICILE RICOMPOSIZIONE
“I consorzi devono cambiar pelle, per occuparsi di più nel trasformare dei nomi di prodotti certificati e tracciabili in brand riconoscibili. È questa la nuova missione, insieme al creare alleanze per essere meno campanilistici nella proposizione all’estero dei grandi vini italiani e per creare valore aggiunto”, rilevano dal Consorzio Oltrepò Pavese, storica zona di produzione di spumante e rimasta parzialmente a margine rispetto al boom produttivo delle bollicine negli ultimi dieci anni. “Non si può più partire dal presupposto che tutti i soci siano uguali – osservano da Pavia – ognuno ha il suo talento, il suo profilo identitario e la sua qualità”. Al di là delle petizioni di principio, lo scontro rimane tra brand e volumi, ma dal Consorzio invitano a non ridurre tutto a una sterile scaramuccia tra cooperative e piccoli produttori. “L’Italia del vino, specie dove esistono zone di produzione con vaste superfici a vigneto ed enormi quantità di prodotto da collocare sul mercato, ha bisogno delle cantine sociali. Con la missione di fare qualità in quantità, le cooperative possono essere un ariete che scardina barriere e apre nuovi mercati”. La crisi del consorzio pavese, dove oggi le coop hanno un peso dominante (ancor più dopo l’acquisizione de La Versa, storico brand di Oltrepò, da parte di Cavit e Terre d’Oltrepò), si è acuita con l’uscita di 15 produttori. E finora non è bastata la scelta di un presidente-produttorecome Luigi Gatti per sanare lo scisma. “All’Oltrepò servono progetti sfidanti – si dice a Pavia – Bisogna elaborare una strategia dal basso, che coinvolga i diversi modelli aziendali e che convinca le imprese a cambiare un po’ anche al loro interno. La sfida per il vino italiano è la distintività. La cosa che conta è il markup, rendere le nostre etichette desiderate per la storia che l’Italia del vino di qualità può vantare su scala globale”. Ma sembra proprio questo il nodo critico per i “ribelli”. E per ovviare a questo problema occorrono reti d’impresa e sinergie vere tra i modelli aziendali più piccoli che “saranno sempre più superati dalle industrie del vino, che sanno far bene il proprio mestiere. Nei prossimi anni occorrerà una riconversione. Al mondo del vino occorrono nuove professionalità e competenze interne per affrontare nuovi scenari di mercato. Bisogna alzare la guardia, perché la Francia sa generare valore a livello mondiale mentre l’Italia non si deve trovare a fare volumi e basta”.
VALPOLICELLA, LOTTA AL LOW COST
Non è recente la spaccatura in Valpolicella. Le 12 aziende uscite dal Consorzio per costituire il club Famiglie dell’Amarone d’Arte rivendicano una battaglia per valorizzare unicità, storicità e qualità di una denominazione che ha in seno uno dei vini più importanti al mondo. “Stiamo cercando di tutelare il territorio e di valorizzare il lavoro di chi ha costruito il successo della Valpolicella”, sottolinea Nadia Zenato, portavoce delle Famiglie. “Puntare sulla qualità significa mantenere il focus su rese basse e prezzi di mercato adeguati, contrastando la corsa al ribasso che penalizza l’immagine dei nostri vini. Questo è quello che dovrebbe fare il Consorzio, no?”. Nata con lo scopo di valorizzare la storicità, l’associazione cerca di presentare sui mercati internazionali i valori fondanti della tradizione. “Cerchiamo di mantenere aperto il dialogo con il Consorzio, ma sappiamo di avere obiettivi diversi rispetto a grandi gruppi e cooperative. E purtroppo le dimensioni contano” ammette Zenato. “Le cooperative sono importanti per la tutela dei piccoli produttori, ma quando aggrediscono il mercato con la scorciatoia del prezzo non fanno l’interesse dei produttori. Sugli scaffali della gdo si trovano etichette di Amarone a 10 euro, un prezzo incomprensibile a fronte dei costi di produzione e che penalizza l’intera denominazione. Noi riusciamo a mantenere alto il valore del brand, ma crediamo che il territorio dovrebbe esser tutelato nel suo complesso. Adesso è tutto facile, ma questo momento favorevole non potrà durare all’infinito e non è svendendosi che si cresce”. Al di là delle controversie, sembra convenire sui punti salienti anche il presidente del Consorzio della Valpolicella, Andrea Sartori. “Piaccia o no, i consorzi sono istituzioni regolamentate dalla normativa nazionale e quindi sono il luogo deputato alla discussione sulle questioni legate alla denominazione. Dato che la componente della cooperazione è importante, poiché rappresenta circa la metà della produzione, deve avere un coinvolgimento forte nei processi decisionali”. Detto questo, Sartori rigetta la semplicistica opposizione quantità-qualità, ma ammette il problema: “Non credo che ci siano produttori che lavorano male, ma in effetti ci sono operatori che usano solo il prezzo come leva, siano aziende o cooperative… In ogni caso, è un problema per tutte le realtà produttive. C’è un accordo trasversale sulla necessità di non svendere, ma il Consorzio non può intervenire sulle politiche di prezzo dei singoli. Possiamo solo lavorare per rafforzare la percezione del valore della qualità”. D’altra parte Sartori ricorda che non si tratta di una questione italiana. “Anche in Champagne ci sono produttori che vendono a prezzi indicibili o non cercano la qualità, ma l’immagine della denominazione viene sempre preservata dalla coesione. Per questo vorrei che la mediazione tra diverse esigenze avvenisse dentro al Consorzio”.
MODELLO TRENTINO
Saranno le bollicine a far la differenza, ma in Trentino sembra che il modello Champagne funzioni. Se su scala regionale la cooperazione è nettamente dominante (siamo quasi al 90%), in seno alla Trento Doc sono rappresentate tutte le anime: piccoli produttori, la maison più rappresentativa (Ferrari) e il mondo cooperativo (Cavit, Mezzacorona, Vivallis e altre ancora). “L’interesse condiviso è il rafforzamento del posizionamento del brand e del metodo classico del territorio”, evidenzia Enrico Zanoni, presidente del Consorzio Trentodoc e direttore generale di Cavit, coop da 182 milioni di fatturato e circa 65 milioni di bottiglie, con 500 soci conferitori. Pur ammettendo che in Trentino l’armonia risulta facilitata dalla netta dominanza della cooperazione, Zanoni ricorda: “Il mondo delle cooperative non è un tutt’uno e negli ultimi anni ha compiuto un percorso evolutivo importante, che ha spinto sulla creazione del valore e sulla segmentazione della propria offerta”. Il portafoglio Cavit è un esempio: “Copriamo i segmenti premium con le nostre eccellenze, ma distribuiamo anche prodotti di facile accessibilità sui quali la quantità è comunque importante. Si tratta di mantenere un equilibrio nel dialogo con tutte le componenti del territorio”.
EQUILIBRIO A BAROLO
“Noi viviamo le differenze in massima serenità”. Esordisce così Andrea Ferrero, direttore del Consorzio Barolo Barbaresco Roero, zona da cui provengono alcuni dei più prestigiosi vini rossi italiani. Un territorio che non ha mai vissuto particolari tensioni tra mondo coop e aziende private. “Le cooperative della zona sono tutte nostre associate e storicamente non ci sono sbilanciamenti – evidenzia Ferrero – anche perché la composizione del consiglio è bilanciata. E poi da noi le cooperative non son viste né come una vacca da mungere né come un soggetto da demonizzare. L’attività sociale che fanno è importante e non ha mai generato tensione”. In realtà Ferrero ammette che la cooperazione non ha un peso preponderante: ci sono alcuni esempi storicamente importanti, come Produttori del Barbaresco o Terre del Barolo, ma anche la Cantina del Nebbiolo o la Cooperativa Dolcetto di Dogliani, “ma certo non si può dire che i prodotti pecchino nel rapporto qualità prezzo, anche rispetto ai riconoscimenti internazionali. Probabilmente la cooperazione nella nostra area ha un focus sulla qualità e ovviamente ha anche una rappresentatività positiva per la denominazione. Forse anche per questo non ci sono forzature”.
di Giambattista Marchetto