L’ultima campagna olivicola-olearia ha visto perdite ingenti, in primis in Spagna. Sott’accusa la lunga siccità degli scorsi mesi. Risultato: prezzi in tutti i canali di vendita alle stelle. Ma la scomparsa dei prodotti civetta può rappresentare la vera opportunità per l’oro verde italiano.
È sparito dai volantini dei supermercati, è meno presente sugli scaffali della Gdo e ha raggiunto prezzi mai vista prima. È stato l’olio extravergine di oliva – e le sue versioni meno premium – uno dei prodotti più assenti nella spesa del 2023, con stime nel 2024 non confortanti. La ragione è nella scarsa campagna olivicolo-olearia degli ultimi due anni. La 2023 pareva promettere meglio della 2022, ma le piogge di maggio e giugno e la lunga siccità che è seguita hanno compromesso buona parte del raccolto. Il calo riguarda l’intera produzione mondiale (che poi vuol dire Europa e Nordafrica) con la Spagna – prima in classifica per tonnellate prodotte – che si ferma intorno alle 700mila – in pratica la metà del rendimento abituale. L’Italia – che occupa la seconda posizione – si aggira sulle 250mila tonnellate (nelle annate di carica si aggira sulle 350mila). Fa peggio la Grecia, un po’ meglio il Portogallo e la Tunisia, mentre Turchia e Marocco hanno sospeso le esportazioni verso l’Unione Europea. Tutto questo ha significato un aumento dei prezzi vertiginoso, con l’olio extravergine di oliva italiano balzato più volte, tra novembre e dicembre, oltre i nove euro al chilo presso la Borsa merci di Bari. Risultato è che, allo scaffale, il consumatore ha visto assottigliarsi il divario tra bottiglie economiche ed etichette di pregio, ma anche tra evo italiano e comunitario.
Dalla crisi all’opportunità per l’olio evo italiano
Dinanzi a questa sorta di “tempesta perfetta” ci si chiede a che livello di spesa i consumatori sono disposti ad arrivare (secondo i dati Nielsen-Ismea il calo è attestato su un 10-11%) ma c’è anche chi sostiene – e non sono in pochi – che questa sia l’occasione di valorizzazione che l’olio evo italiano aspettava da tempo. Tra questi c’è Savino Muraglia, quinta generazione dell’omonima azienda di Andria, in provincia di Bari. Parte del suo olio ha un packaging fortemente riconoscibile – le bottiglie in ceramica smaltata – e non c’è sugli scaffali dei supermercati: “Questi sono gli anni per conquistare il giusto posizionamento dell’olio extravergine di oliva italiano – spiega l’imprenditore – uscendo dal paradigma di prodotto sottocosto fino ad oggi presente sugli scaffali della Gdo. È proprio questo assottigliarsi del differenziale di prezzo a poter spostare l’attenzione e la propensione al consumo verso oli di alta qualità. Come Muraglia abbiamo disintermediato andando direttamente al consumatore finale, attraverso canali retail di alta gamma e ristorazione, perché l’olio evo non può costare meno di 11-12 euro. Bisogna far capire che non è una commodity, ma, al contrario, una risorsa scarsa”.
Di scarsità parla anche Chiara Coricelli, Presidente e Amministratore delegato di Pietro Coricelli Spa, l’azienda olearia umbra che nel 2023 è diventato il primo operatore attestato di olio 100% italiano. La mancanza di prodotto è questione strutturale nel Paese, stretto e lungo com’è e con poca capacità intensiva di uliveto: “Non bisogna scomodare fenomeni inflazionistici per spiegare quello che sta accadendo – spiega l’imprenditrice – i prezzi aumentano perché abbiamo poca terra da destinare agli alberi di ulivo. La nostra grande forza però è il patrimonio delle cultivar che si aggirano intorno alle cinquecento tipologie. Pur essendo un’industria olearia che acquista olive comunitarie, da qualche anno la nostra strategia commerciale è puntare sempre più sulla filiera nazionale. Lo abbiamo fatto, ad esempio, con l’olio evo Pietro Coricelli, il primo “Firmato dagli agricoltori italiani” una garanzia non solo per la tracciabilità del prodotto come 100% italiano, ma per l’adeguata remunerazione prevista agli olivicoltori per la materia prima fornita. È probabilmente il prodotto più costoso tra gli oli evo presenti sugli scaffali dei supermercati”.
In Sardegna il raccolto 2023 ha segnato un 30% in meno, soprattutto nella zona nord, la più vocata. Ad Alghero, l’Accademia Olearia della famiglia Fois ha dovuto fare i conti con le piogge, con la siccità e i forti venti. Dagli inizi del Duemila sono entrati in Gdo con alcune private label, in particolare con Sapori e Dintorni in Conad e Terre d’Italia in Carrefour, ma la loro continua a essere una realtà a filiera chiusa con 250 ettari di uliveto divisi tra tre aziende: “Se parliamo di nuovi target – spiega Antonello Fois – è difficile credere che chi sceglie olio di oliva a meno di 5 euro – ma come prodotto civetta nei volantini costa anche molto meno – arrivi a comprare qualcosa che costi il doppio. I consumatori a cui rivolgersi sono quelli che non hanno difficoltà a passare dagli 8-10 euro a 12, spostandosi dal prodotto di litro a quelli con certificazione Dop e Igp. Noi come azienda, pensando al futuro, abbiamo messo a dimora altri 34 ettari di uliveto e partecipiamo a iniziative che fanno rete come Opera Olei, un consorzio che riunisce aziende produttrici di olio extra vergine d’oliva monocultivar, oppure ad associazioni come Frantoiani Coraggiosi che ha un decalogo di principi da rispettare. In generale tutto ciò che riguarda l’aggregazione è positivo. Ecco perché sono presidente dell’Op Apos, l’organizzazione regionale dei produttori olivicoli, perché solo con una risposta unitaria si può rispondere alle esigenze di mercato”.
Rilanciare l’olivicoltura italiana, quali strategie
Il comparto olivicolo-oleario non dà accesso a grandi marginalità. Anzi, l’intera filiera, compresa la distribuzione organizzata, non fa guadagni interessanti con l’olio di oliva. Cosa che non stranisce leggendo i prezzi sugli scaffali di qualche tempo fa.
Prezzi possibili perché la produzione italiana fa leva sull’acquisto di prodotto comunitario, in particolare spagnolo. Lo sottolinea Pasquale Bonsignore, ideatore e proprietario del marchio Incuso, progetto che si prende cura della produzione, della trasformazione, della commercializzazione e della comunicazione di alcuni prodotti alimentari, in particolare dell’olio extra vergine di oliva di Castelvetrano. Senza però possedere alcuna azienda agricola, tantomeno terra: “Il dramma di questo settore – spiega Bonsignore – è l’eccessiva finanziarizzazione del sistema. Parliamo di un comparto piccolo, che si aggira intono ai tre miliardi di euro di fatturato, ma buona parte di questo si regge sull’acquisto di partite di olio estero, circa 700mila tonnellate su un totale di un milione. L’olio che consumiamo e che vendiamo fuori dai confini è, quindi, per i due terzi, non italiano. Ciò che resta, circa 300mila tonnellate, è gestito da piccolissimi operatori che cercano di fare un lavoro di qualità, ma che non hanno forza contrattuale. La sfida è collocare questo quantitativo in quei mondi in grado di valorizzarlo. Il “modello Incuso” si basa su questo, raccontare al mondo perché l’Italia è il paese più bello del mondo e vuole farlo attraverso la specializzazione dei prodotti, una scelta che, se da un lato porta avanti operazioni piccole, dall’altro può crescere mettendo assieme più prodotti e produttori, non una mega azienda, ma un sistema produttivo che punta su più eccellenze e più territori. L’obiettivo di un disegno così pensato è valorizzare il lavoro di quelle persone che presidiano, con il loro lavoro, queste periferie agricole. Un patrimonio di conoscenze e competenze che stiamo perdendo”.
Raccontare questo e altro è il compito che si è data Simona Cognoli che, con il suo progetto Oleonauta, si occupa di formazione e divulgazione sui temi dell’olivicoltura e della degustazione dell’olio extra vergine di oliva. Secondo la degustatrice rimane un problema di messaggio: “Cominciamo con il dire – dice Cognoli – che di olio evo se ne può consumare meno e meglio, che offre una ricchezza sensoriale che nessun altro olio offre, che ha un valore nutraceutico e che tante cultivar creano benessere ambientale perché la biodiversità degli ulivi è una risposta contro i patogeni, i batteri killer e in generale contro il cambiamento climatico. Si deve lavorare a una selezione delle varietà resistenti e in Italia si può fare. Vero è anche che il nostro Paese ha una filiera frammentata e poco competitiva. Basti pensare che i frantoi in Spagna sono la metà dei nostri, perché hanno puntato sulla concentrazione e sull’abbattimento dei costi. Quindi una prima soluzione potrebbe essere nella nascita di reti di imprese virtuose. Altro canale di consapevolezza è quello dell’oleoturismo, riconosciuto con la Legge di Bilancio del 2020. Portare i consumatori a vedere i frantoi, a scoprire alberi anche millenari, a vedere la fioritura dell’olivo, può aiutare a capire che quel prezzo della bottiglia, ritenuto eccessivo, vale invece la spesa”.
Sviluppo fa rima con sostenibilità, anche nel mondo dell’olio
La sostenibilità ha più facce, anche nel mondo dell’olio. Quella ambientale, ad esempio, per Monini, significa accrescere il numero di alberi di ulivo come spiega Riccardo Cereda, direttore generale della nota azienda umbra: “Abbiamo come obiettivo nel 2030 di arrivare a un milione di piante in più, ma siamo già a quota 700mila. È un processo di investimento lento ma inevitabile in uno scenario di rese future più basse”. Monini ha portato a casa, in chiusura d’anno, anche un importante riconoscimento: è loro, infatti, il miglior frantoio biologico al mondo secondo il rating internazionale World’s Best Olive Oil: “Il primo posto del Frantoio del Poggiolo di Spoleto – continua Cereda – si ottiene con grossi investimenti in tecnologia, perché l’olio è un prodotto dove è difficile fare delle correzioni, va lavorato dall’inizio alla fine con grande precisione e competenza”.
Sostenibilità sociale ed economica sono due voci imprescindibile in una cooperativa. Lo sanno bene a Riva del Garda, in provincia di Trento, dove nel 1965 è nato il frantoio Agraria Riva del Garda che, nel 2000, è diventato il primo di stampo cooperativo del territorio. Oggi tutti lo conoscono come Frantoio di Riva che, 15 anni fa, ha cambiato l’intero approccio produttivo e commerciale: una gamma diversificata di oli evo ultra premium – dai 35 euro in su al litro, ma anche confezioni da 40ml che costano poco meno di cento euro – una cantina vitivinicola – Cantina di Riva – e prodotti tipici come le prugne di Dro e una polvere di olive nere – Ulidea – studiata con lo chef Alfio Ghezzi: “Tutto serve a costruire una marginalità importante – spiega Massimiliano Consolo, consulente commerciale della cooperativa trentina – e per questo abbiamo rivolto il business verso i canali gourmet perché l’obiettivo principale è favorire e valorizzare i prodotti dei nostri trecento soci”. L’altra grande scommessa è l’investimento in sviluppo e ricerca – più di un milione di euro negli ultimi tre anni – che ha permesso al Frantoio di Riva di riutilizzare gli scarti di lavorazione in molti contesti: il concentrato di polifenoli viene venduto al comparto cosmetico, i noccioli usati come combustibile per il riscaldamento, la sansa denocciolata diventa mangime per i bovini, l’acqua di vegetazione delle olive ripulita è impiegata per i lavaggi nei reparti di produzione. “L’approccio scientifico – continua Consolo – ci permette anche di non fare più affidamento all’invaiatura per capire se l’oliva è pronta. Ci siamo invece affidati alle analisi del frutto fatte ogni settimana a partire da luglio. Solo quando la quantità di grasso è ottimale tiriamo giù il frutto”. Parlando ancora di investimenti torniamo in Puglia da Frantoio Muraglia dove Savino Muraglia ha deciso un piano quinquennale di sette milioni di euro fino al 2026 destinato all’innovazione tecnologica: “Che non è finalizzata – specifica l’imprenditore – all’aumento della capacità produttiva, ma ad un continuo miglioramento della qualità del prodotto e del servizio al cliente. Inoltre, accresceremo la nostra economia circolare perché su cento chili di olive il prodotto nobile è pari a un 11-14 per cento quindi ho un 85 per cento di rifiuti da valorizzare e lo si fa creando compost per terreni, acqua pulita, metano, energia elettrica. Sono tutte voci che vanno ad arricchire il conto economico dell’azienda e che fanno da contrappeso alla perdita di marginalità”.