In Italia ci sono all’incirca 50mila aziende vitivinicole. Un esercito di operatori in lotta per spartirsi un giro d’affari stimato in 13 miliardi di euro, di cui poco più di 6 miliardi derivano dall’export. In media fanno 120mila euro di fatturato estero per azienda. È evidente che con queste dimensioni non si può competere in un mondo dove operano colossi come quelli statunitensi e australiani, dotati di ben altra potenza di fuoco: il totale esportato dall’Italia è inferiore al fatturato della sola Constellation Brands (8,2 miliardi di dollari nell’ultimo anno). Se poi consideriamo che la sommatoria dei primi dieci player italiani vale un sesto del giro d’affari nazionale e una quota ben più alta dell’export complessivo, è evidente che la maggior parte delle cantine è tagliata fuori dalla competizione globale e sopravvive solo grazie al consumo locale, facendo leva sul prezzo. È un sistema che penalizza tutti e preclude importanti possibilità di sviluppo, specie nei nuovi mercati. Inoltre, è un modello perdente perché limita la conoscenza e la diffusione dei vitigni tipici italiani.
Vinitaly sta cercando di rimediare a questo limite organizzando fiere all’estero, dal Brasile alla Cina, finalizzate a far crescere non solo la conoscenza del proprio brand, ma anche le vendite estere degli italiani. Però una fiera, per quanto importante e meritoria, non può rappresentare la soluzione del problema. I piccoli restano pur sempre piccoli e l’Italia invece ha bisogno di gruppi più strutturati. Negli ultimi anni, al di fuori del mondo cooperativo, abbiamo assistito ad alcune operazioni che hanno ampliato il portafoglio marchi di gruppi come Santa Margherita, Terra Moretti, Tommasi, Bertani e Feudi di San Gregorio. Due realtà come Masi e Iwb hanno scelto la quotazione in Borsa. I fondi di private equity si sono avvicinati al settore investendo in realtà come Farnese e Botter, ma si tratta di operazioni isolate. La difficoltà degli investitori finanziari, infatti, è legata alla rilevanza della parte real estate rispetto all’investimento complessivo. In prospettiva, una strada da studiare potrebbe essere proprio la separazione della proprietà aziendale da quella fondiaria, strategia adottata da Prosit (di cui parliamo in questo numero) e applicabile a molteplici realtà del wine italiano. Di sicuro, il settore necessita di risorse finanziarie e competenze manageriali per spiccare il salto necessario ad avvicinarsi al livello raggiunto dai francesi.