Nicola Farinetti: “Stavamo correndo al ritmo del +15% e non era un caso. Durante il lockdown tutti hanno dovuto scegliere l’online, ma nel cibo non potrà mai sostituire l’esperienza negli store”
di Andrea Guolo
Nicola Farinetti ha iniziato il mandato da unico ceo in fase pienamente espansiva per Eataly. Poi è arrivato il Covid. E per una realtà dove la ristorazione rappresenta la metà degli incassi, l’inversione di tendenza nei conti è stata inevitabile. Ma se ti chiami Farinetti, è altrettanto inevitabile avere una visione positiva della vita e una forte convinzione che, se l’albero è sano, tornerà a dare frutti. “Dicevo ai miei ragazzi che se stavamo andando così bene, non era un caso. E ora dico loro: tranquilli, ci ritorniamo”. Com’era la situazione prima della pandemia? Arrivavamo da 18 mesi eccellenti, con un budget sfidante per il 2020 e che nei primi due mesi stavamo comunque superando del 4%, per una crescita complessiva del 15% anno su anno. Questo stava avvenendo anche grazie al contributo di Andrea Guerra, con il quale già a ottobre avevamo iniziato a impostare l’anno. Poi lo scenario è cambiato…
Qual è stato il giorno in cui vi siete resi conto che la situazione non era più normale?
Per me è stato sabato 22 febbraio, il giorno successivo alla comparsa dei primi casi in Lombardia. Lo ricordo bene perché quella sera a Eataly Lingotto organizzavamo il Circo del Mercato ovvero la serata, bellissima, in cui i nostri produttori vanno ai tavoli dei clienti raccontando le materie prime. Avevamo chiamato a Torino tanti ragazzi degli altri Eataly, perché volevamo portare questa formula in tutta Italia. Ma il clima non era quello che mi aspettavo, e con tutti si finiva a parlare del virus e di un futuro in discussione.
Poi sono arrivate le chiusure…
Ancor più dell’entità, la cosa più sorprendente di questa crisi pandemica è stata la velocità che ha contraddistinto il cambiamento e le decisioni da adottare. In Italia abbiamo lavorato tantissimo per mettere in sicurezza tutti i nostri ragazzi, in una situazione inedita e con tutte le difficoltà per trovare mascherine, guanti, il gel disinfettante diventato costoso come l’oro… Così almeno, dopo aver chiuso la ristorazione, siamo riusciti a tenere aperta la vendita dei prodotti alimentari e la consegna a casa della spesa. È stato un test importante e prezioso per la successiva applicazione all’estero, quando il lockdown ha riguardato anche gli altri mercati dove Eataly opera. E all’estero noi italiani ne siamo usciti a testa alta, perché eravamo già preparati e potevamo non solo implementare velocemente le misure di sicurezza, facendo un’ottima figura, ma anche rassicurare le persone attraverso la nostra precedente esperienza.
Come avete affrontato poi la riapertura?
Con due riflessioni alla base. La prima è: tantissima sicurezza, ben oltre il livello stabilito dalle istituzioni. La seconda è: dobbiamo garantire un’esperienza divertente e conviviale, perché è quel che la gente si aspetta da noi. La sfida è non far pesare sul cliente di Eataly la presenza delle disposizioni per la sicurezza e quindi ci siamo inventati un po’ di cose particolari, dalle mascherine personalizzate al menù raccontato, fino alla riorganizzazione dell’accoglienza ai tavoli dei nostri ristoranti. La squadra di Eataly ha risposto in maniera fantastica. Il piatto simbolo della nuova fase è stata una carbonara 100% bio italiana: perché si riparte dalla tradizione, dall’italianità, dalla sostenibilità e dalla terra.
Il budget a fine anno lo avete già rivisto?
A oggi è impossibile determinarlo, perché non sappiamo con certezza quando riaprirà la ristorazione in tutti i nostri Paesi di riferimento. Sicuramente andremo a chiudere l’anno con un segno “meno” importante ma di entità diversa a seconda del mercato. In Italia, per esempio, le perdite saranno più contenute rispetto agli Usa, perché da noi la vendita dei prodotti conta più della ristorazione mentre negli Stati Uniti succede il contrario. E ad aprile, in Italia, con la sola vendita abbiamo incassato circa la metà del potenziale. Comunque i nostri ragazzi hanno lanciato tante cose nuove nel mondo e ogni settimana facciamo un po’ meglio della settimana precedente.
Questa situazione determinerà un cambiamento dei vostri piani di sviluppo?
Assolutamente no, tutto è confermato. L’apertura di Eataly London rimane la nostra priorità: puntiamo a realizzarla entro l’anno, ma se si dovesse andare ai primi mesi del 2021 non ce ne faremo una colpa. Entro novembre dovrebbe aprire Dallas, e poi negli Stati Uniti sarà la volta della Silicon Valley e di Seattle. In Italia il prossimo anno aprirà Verona, in Europa entro il 2022 inaugureremo Bruxelles. Nel frattempo ci sono tanti altri fronti aperti soprattutto in nord America, dove stiamo guardando a Washington Dc, a Orange County, a un raddoppio in città come Toronto e Los Angeles dove stiamo andando benissimo, e non escludiamo l’ipotesi di un terzo store a Manhattan. In Europa, dove l’obiettivo è sempre quello di piantare una bandierina in ogni capitale, le attenzioni sono rivolte a Berlino e a Madrid. Il lockdown ha inevitabilmente rallentato le trattative, ma entro l’estate contiamo di riuscire a mettere i puntini sulle i.
Per la Cina si era parlato di una vostra possibile trattativa con Suning, rumor poi smentito da Oscar, per portare Eataly in un mercato dall’altissimo potenziale. Quando ci arriverete?
Sono fermamente convinto che in Cina ci dobbiamo essere, perché i cinesi di oggi sono aperti, internazionali, desiderosi di acquistare i nostri prodotti. E dobbiamo entrarci in tempi abbastanza rapidi perché, come insegna l’esperienza francese per il vino, se non ci andiamo in fretta rischiamo di perdere il giro. Ma la Cina è anche il luogo dove quasi tutti hanno sbagliato l’ingresso, perché si tratta di un mondo complesso e lontano. Il tema quindi non è accelerare, il tema è trovare i giusti partner, capire il Paese e impostare un format di successo. Abbiamo un’idea, l’abbiamo discussa con più potenziali partner, le possibilità sono tante. Ma ci vorrà ancora un po’ di tempo. Anche perché, in questo momento, la priorità è far ripartire gli store nei Paesi dove siamo già presenti.
Gestione diretta e franchising?
Abbiamo fatto una scelta molto semplice: nei Paesi dove le persone mangiano come noi entriamo direttamente, in quelli dove mangiano in maniera diversa operiamo in franchising. Pertanto i negozi di Eataly sono a gestione diretta in Europa e nelle Americhe, mentre in Giappone, Russia e Medio Oriente operiamo con lo strumento della licenza.
Tra ristorazione e vendita, quale pesa di più?
A livello globale siamo 50-50, forse qualcosa in più per la vendita al mercato. In un mondo pieno di società specializzate nella ristorazione e che fingono di fare anche mercato, e viceversa, siamo gli unici ad aver raggiunto quest’equilibrio che riteniamo sia molto importante e costituisca un grandissimo punto di forza per Eataly.
E poi c’è il digitale, che è stato il grande vincitore della sfida durante il lockdown. Nulla sarà più come prima?
Nel momento in cui non si poteva più uscire di casa, era ovvio che il digitale sarebbe diventato una scelta obbligata e noi per fortuna eravamo preparati con il servizio Eataly Today anche se, per eccesso di richieste, le consegne anziché esser svolte in giornata sono slittate a 4-5 giorni. Ma io non credo che il digitale abbia conquistato del tutto il mondo e non credo che soppianterà l’esperienza fisica. La pandemia ha accelerato i processi in corso, senza però rivoluzionarli. Così, in soli due mesi, la vendita online è cresciuta arrivando ai livelli che avrebbe potuto raggiungere entro i prossimi cinque anni. Però, con la riapertura, sono abbastanza convinto che l’online continuerà a rappresentare una quota significativa ma non troppo elevata dell’acquisto, diciamo all’incirca un 10%, perché da sempre il cibo rappresenta il prodotto più difficile e complicato da vendere online. La gente rimane legata all’acquisto toccando con mano, all’esperienza del mercato. Perché nella vita, come dico sempre ai miei chef, per alcune cose il momento della scelta è più bello della realizzazione finale.
E la sostenibilità? Con l’emergenza e con il ritorno al monouso, sembra diventato un argomento meno hot nelle agende economiche…
La sostenibilità è sempre stata alla base di Eataly fin dagli esordi. E non si è certo fermata. Eataly London sarà uno store quasi totalmente plastic free, e lo sarà al 100% per il packaging e il delivery. Poi stiamo lavorando tantissimo sulla riduzione dei rifiuti, su una drastica riduzione del polistirolo nel trasporto di alimenti, sul packaging in stragrande maggioranza compostabile, sulla raccolta dei rifiuti organici nei negozi per arrivare a creare, noi stessi, un compost di alta qualità da utilizzare in agricoltura, senza dimenticare ovviamente il tema della riduzione degli sprechi. In generale, è un tema che non avrà mai un punto d’arrivo e sul quale bisogna lavorare tutti i giorni, arrivando a intervenire fin nei minimi dettagli per poter migliorare day by day.
Nel 2019 Eataly era cresciuta del 7%, arrivando a 527 milioni, e soprattutto aveva chiuso in attivo di 8 milioni, dopo la perdita del 2018. Il 2020 tornerà a essere un anno “in rosso”?
È ovvio che il 2020 sarà un anno duro per tutti e difficilmente potrà determinare utili. Ma non è ancora finito. E chissà, magari l’ultimo quarter potrebbe determinare qualcosa di sorprendente…
Con la variazione della governance di Eataly, è cambiato qualcosa in cda?
Le posizioni rilevanti erano quelle di Andrea Guerra come presidente esecutivo e dei tre ceo: oltre a me, c’erano Luca Baffigo Filangieri e mio fratello Francesco, che ora sono diventati vice presidenti. Andrea Guerra ha mantenuto la presidenza, mentre mio padre è founder. Per il resto, tutto invariato.
Questione Borsa: progetto rinviato o abbandonato?
Io penso che per un’azienda del valore di Eataly, per un Paese come Italia che ha una ricchezza enogastronomica incredibile ma che, per un motivo o per un altro, non ha mai esportato né una catena ristorativa né una catena di supermercati, avere prima o poi un’azienda veramente strutturata in tutto il mondo e averla sotto forma di public company possa essere giusto e di grande valore. Ma non è questo l’obiettivo di Eataly. Siamo ancora in fase di sviluppo, abbiamo la possibilità di crescere con i nostri mezzi e quindi, poiché l’ingresso in Borsa va fatto a seconda degli scenari e dei momenti giusti, pensiamo che oggi non rappresenti una priorità.