Il retail è in fermento: Starbucks cresce e si accorda con Nestlé, Coca-Cola si è comprata Costa e Jab ha fatto lo stesso con Pret a Manger. La risposta ai colossi arriva dalle micro roaster. Intanto gli italiani, persa la lotta per le caffetterie, si concentrano sulla torrefazione e si difendono puntando sull’espresso
“Il caffè sembra essersi risvegliato da un sonno durato anni, in cui era considerato una commodity, per assumere il ruolo di prima donna dei piaceri, sia intimi che ostentativi”. L’immagine offerta da Luigi Odello, presidente dell’Istituto internazionale assaggiatori caffè e amministratore delegato dell’Istituto nazionale espresso italiano, sintetizza l’evoluzione di un prodotto che, dopo anni di quiete, pare aver conquistato il centro della scena e non soltanto in Italia, dove semmai la novità è rappresentata dall’ingresso della più grande catena internazionale della somministrazione. Starbucks spinge un cambiamento nel mercato nazionale, ma anche e soprattutto a livello internazionale, a partire dall’Asia, dove lo sviluppo dei modelli di consumo stimola la voglia di investire da parte di private equity e big corps. E mentre nelle case ha fatto breccia il lusso di monodosi e capsule, fuori casa impazza la ricerca di micro roaster che propongono caffè gourmet con tanto di origine, utilizzando così la ricerca e la differenziazione come naturale risposta al rischio di massificazione.
I TRE BIG MONDIALI
Starbucks è arrivata in Italia a settembre con la roastery Reserve di piazza Cordusio, seguita dall’avvio delle aperture in partnership con Percassi F&B, e nel contempo annuncia botte da 200 aperture l’anno in Asia, soprattutto in Cina. La multinazionale di Seattle ha inoltre chiuso ad agosto un accordo con Nestlé per la commercializzazione mondiale in esclusiva dei prodotti Starbucks dedicati ai consumer, confezionati e foodservice, al di fuori naturalmente dei coffee shop della sirenetta (oggi oltre 25mila). La partnership delinea il programma di crescita del colosso svizzero, conferendo a Nestlé “una posizione senza eguali nel settore del caffè. Con Starbucks, Nescafé e Nespresso riuniamo i marchi di caffè più iconici al mondo”, ha dichiarato Mark Schneider, CEO di Nestlé. Il suo omologo a Seattle, Kevin Johnson, rincara: “Mettendo assieme il più importante retailer di caffè al mondo, la più grande azienda del food & beverage e la più grande platea (e in rapida crescita) di macchine da caffè domestiche e monodose, ci permette di amplificare il marchio Starbucks in tutto il mondo, offrendo al contempo creazione di valore a lungo termine per i nostri azionisti”. L’operazione di M&A che ha però fatto il mercato nel 2018, mostrando l’attrazione fatale per l’oro nero tostato, è quella che ha spinto Coca-Cola ad entrare prepotentemente nel coffee retail con l’acquisizione di Costa Coffee, per un controvalore di 5,6 miliardi di euro. La seconda catena mondiale del caffè, presente in 32 paesi con oltre 3800 caffetterie, ha attratto l’attenzione del big americano perché “le bevande calde erano uno dei pochi segmenti di beverage nel quale non avevamo un brand globale”, ha spiegato il CEO di Coca-Cola James Quincey. “E Costa ha una piattaforma del caffè davvero potente” ha aggiunto il numero uno del colosso delle bevande gassate, sottolineando che da questa mossa si guarda poi all’integrazione nella distribuzione attraverso self service e horeca. La terza forza entrata in campo è quella di Jab Holdings, che ha sborsato circa 1,5 miliardi di sterline per assicurarsi la proprietà di Pret a Manger: i numeri sono inferiori, poiché la caffetteria con servizio di ristorazione veloce fondata a Londra nel 1986 conta circa 500 store ed è presente prevalentemente in Gran Bretagna (ma conta locali anche in Usa, Cina, Hong Kong e Dubai), ma la specializzazione in UK è da sempre considerata un plus proprio nell’ottica di uno sviluppo internazionale con un occhio di riguardo per il middle east. E pur con un format differente, anche McDonald (già dal 2009) sta puntando sull’attrazione dei McCafé.
RINCORSA ITALIANA
In questo scenario tumultuoso l’Italia, chiusa l’epoca della lamentela per aver perso la paternità internazionale del proprio modello di caffetteria basato sull’espresso, finalmente non sta a guardare. Il più convincente esempio di Starbucks italiano è Pascucci, torrefazione pesarese che ha saputo creare una catena in franchising di 650 coffee shop nel mondo con una particolare diffusione in Corea del Sud, ma anche con 50 store negli Usa e una quarantina in Italia, di cui dieci in gestione diretta, muovendo un giro d’affari complessivo di quasi 300 milioni. Al di là di alcuni player di nicchia, come le venete Diemme e Goppion, sono soprattutto i torrefattori a giocare la partita. Mentre Lavazza si concentra sui flagship store, Segafredo e Vergnano aprono caffetterie, ma è Illy il più presente nelle metropoli internazionali con 167 illy Caffè e 77 illy Shop, dove vengono ogni giorno serviti più di 7 milioni di caffè espresso. “Il concetto di caffetteria come luogo di consumo e ambiente sociale per eccellenza – osserva Massimiliano Pogliani, amministratore delegato di illycaffè – ha guidato l’evoluzione delle catene, associato oggi alla ricerca di caffè di miglior qualità da parte dei connoisseur, seguendo la strada intrapresa dal vino. Se abbiamo un diritto di primogenitura, non abbiamo poi saputo essere leader nello sviluppare il modello. Oggi però stiamo recuperando terreno e noi stessi abbiamo deciso di ampliare la nostra rete monomarca in quanto flagship e touchpoint fondamentali del nostro brand per i consumatori, offrendo un’esperienza all’insegna dell’Italian lifestyle”. C’è chi definisce quella in corso come una sorta di rivoluzione nel mercato. “Il caffè rappresentava una voce non remunerativa nell’offerta retail tradizionale, ma con l’avvento di prodotti nuovi (spinti da Starbucks) tutto cambia e si crea di fatto una divisione tra chi gestisce il caffè all’italiana e chi ha un approccio più avanzato”, afferma con decisione Antonio Bicego, docente nel F&B management all’accademia Dieffe di Padova, ma anche consulente di multinazionali del caffè. “L’espresso è un prodotto nel quale l’incidenza della materia prima è bassissima e quindi il ricavo è interessante, ma devi farne un milione perincassare un milione di euro. Oggi invece una visione nuova dell’esperienza del caffè si sta facendo strada anche tra i consumatori italiani e Starbucks è la scintilla del cambiamento. Ne godranno anche il segmento pasticceria e le nuove bakery. E la distribuzione dei torrefattori è costretta a farci i conti, offrendo prodotti dedicati a nuovi sistemi di estrazione del caffè (filtrato, V60, etc). Questo rende il mercato più internazionale, ma il bar italiano dovrà evolvere verso una nuova consapevolezza”.
DAL BAR A CASA
Le catene rappresentano però solo una parte del mercato del caffè che oggi, sottolinea Pogliani di illycaffè, appare “caratterizzato da un’elevata concentrazione, essendo nelle mani di pochi player globali che crescono prevalentemente acquisendo altri marchi. La nostra strategia è invece la crescita organica, sostenuta da investimenti sul brand e sul nostro unico blend di caffè. Se per noi il core business continua a essere l’horeca, proponiamo sistemi di preparazione porzionati per il consumo a casa e c’è l’espansione dei punti vendita monomarca e l’e-shop. L’estensione dei prodotti a livello globale ci ha spinto all’accordo di licencing con JAB, per il quale JDE produrrà e distribuirà le nostre capsule compatibili, offrendo a un numero sempre maggiore di coffee lover nel mondo il nostro blend”. D’altra parte, il consumo del caffè è notevolmente cambiato. “Se fino a pochi decenni fa il caffè era una commodity che rappresentava solo una fonte di caffeina, da qualche anno possiamo parlare di caffè specialty, un concetto che include sia la qualità del prodotto sia il rito del consumo. Il consumatore si è evoluto e ha cominciato a richiedere un caffè di qualità e di poterlo degustare con diverse modalità di preparazione”. Per questo Illy ha lanciato le Arabica Selection o il Cold Brew, con i millennials come target di riferimento.
AWAY-FROM-HOME
Scegliendo di concentrare nuove energie sul consumo extra domestico, il Gruppo Lavazza ha perfezionato a fine 2018 l’accordo (già comunicato a ottobre) per l’acquisizione del segmento caffè di Mars, che include il business da 350 milioni di dollari delle macchine da tavolo Flavia e dei distributori Klix. I due marchi leader nei segmenti Office Coffee Service (OCS) e Vending – con attività in Nord America, Germania, Regno Unito, Francia, Canada e Giappone, oltre a impianti di produzione in UK e Usa – andranno a costituire il segmento Lavazza Professional. L’accordo, in linea con le acquisizioni di Carte Noire e ESP in Francia, Merrild in Danimarca, Kicking Horse Caffè in Canada, NIMS in Italia e Blue Pod Coffee in Australia, punta al consolidamento internazionale, con particolare attenzione al segmento away-from-home.
ESPRESSO E FILIERA
Il made in Italy da un lato è costretto a inseguire nel retail, dove la battaglia si combatte certamente lungo l’asse Usa/Uk, ma gioca un ruolo da protagonista nell’avanzata del suo prodotto di punta ovvero l’espresso. Mentre l’approccio Starbucks porta anche in Italia modelli di consumo differenti, dallo shakerato al frappucino al matcha, gli osservatori non possono che constatare i consensi internazionali dell’espresso italiano, “oggi sempre più vissuto all’estero come un capolavoro che riflette il made in Italy e ne diventa l’ambasciatore”, conferma Luigi Odello. In questo mercato l’Italia gioca un ruolo da protagonista, dato che si contano oltre 800 torrefazioni (per un totale di circa 7mila addetti) che trasformano oltre 9 milioni di sacchi. Secondo le elaborazioni del Comitato italiano del caffè su dati Istat, l’industria della torrefazione sviluppa un fatturato complessivo che nel 2017 è arrivato a 3,9 miliardi di euro, di cui 1,35 miliardi derivanti dall’export, per il 60% in UE e in crescita tra Svizzera, Usa, Australia, Russia, Canada, Cina, Israele, Corea del Sud. Eppure non è la torrefazione la vera gallina dalle uova d’oro per gli investitori. “È un settore che teniamo monitorato, dato che tutto il mondo dell’espresso sta avendouno sviluppo importante – osserva Stefano Migliorini, partner nella holding d’investimento NUO Capital che fa capo alla famiglia Pao Cheng di Hong Kong – e gli investimenti pesanti di Nestlè o Coca Cola confermano l’attenzione crescente per il retail. Starbucks prevede almeno 400 aperture solo in Cina per il 2019 e, nel nostro piccolo, anche in Italia i format legati al caffè di qualità stanno crescendo. È molto interessante per lo sviluppo e la remunerazione dell’investimento, ma molte realtà sono ancora troppo piccole per essere appetibili per i fondi strutturati”. Vale però la pena di considerare l’intera filiera: “Il mercato che sta emergendo con forza – prosegue Migliorini – è quello dell’espresso e qui l’Italia è protagonista con grossi player come Illy, Segafredo o Lavazza presenti a livello internazionale e alcuni altri, come Hausbrandt o Pellini, in evidente crescita. Eppure il prodotto-caffè è spesso percepito come commodity e non è di per sé italiano, mentre chi beneficia di questo trend sono le aziende che fanno equipment”. Chi produce macchine per espresso come ad esempio Cimbali, Marzocco, La Spaziale, Nuova Simonelli, gode di ottima salute e lo confermano i loro conti economici. Sono aziende spesso di impianto familiare, che fino a una decina d’anni fa sopravvivevano con fatica con prodotti talvolta tradizionali legati a una tecnologia che non è cambiata troppo negli ultimi quarant’anni. Oggi tutto è cambiato. “I bilanci di queste realtà sono in netto attivo con un ebitda che fa invidia alla moda. È un business molto interessante, anche perché l’ingresso in un segmento così storico è difficile per nuovi competitor”, insiste Migliorini. In prospettiva, il limite alla capacità d’espansione potrebbe essere rappresentato dalla loro stessa natura familiare, che complica la necessaria apertura di capitale e l’ingresso di fondi di private equity. Ma se qualcuno dovesse iniziare, potrebbero modificarsi gli assetti di un mercato oggi frammentato e non facile da gestire nella distribuzione internazionale.