Con un certo ritardo, il business dell’enoturismo in Italia pare ormai prossimo al decollo, e sono già molte le aziende pronte con i motori accesi. Ma il fenomeno sembra restare fermo sulla pista. Il turismo del vino è un’opportunità notevole sotto ogni punto di vista, dall’impatto sulle vendite e sui margini alla successiva fidelizzazione della clientela; dal potenziamento del brand alla valorizzazione del patrimonio immobiliare. All’interno delle tenute, infatti, i poderi hanno la potenzialità di proporsi come strutture di accoglienza di alto profilo, e consentire un new business di hotellerie e ristorazione, a loro volta leva di posizionamento dei vini prodotti in loco. Queste potenzialità sono ben visibili negli Stati Uniti, dove la sola Napa Valley, favorita dalla fama dei suoi vini e dalla vicinanza a San Francisco, è in grado di generare un giro d’affari enoturistico da due miliardi di dollari l’anno, di poco inferiore agli incassi stimati per l’Italia intera. Il bicchiere, invece, da noi è ancora mezzo vuoto, nonostante alcuni casi virtuosi. E questo ritardo è ancora più grave, poiché si confronta con una serie di fattori favorevoli che oggi sono tangibili: l’attitudine del consumatore verso la wine experience, l’incremento del turismo internazionale in Italia, e, più in generale, un concetto di benessere legato alla natura che trasforma i vigneti in uno spazio dove trascorrere il proprio tempo. Per cogliere queste coincidenze favorevoli, occorre saper superare le criticità che non devono essere imputate soltanto ai limiti di visione della politica e agli ostacoli posti dalla burocrazia. I brand del vino (esclusi gli imbottigliatori puri, ai quali viene a mancare la conditio sine qua non per effettuare l’attività ricettiva, ovvero la proprietà fondiaria) devono affrontare la sfida con più convinzione e mettendoci risorse. Si tratta di imparare un nuovo mestiere, con tutti i rischi e gli impegni che ne derivano. Non è una cosa banale: il turismo del vino impone necessità di programmazione, investimenti in nuove strutture o adeguamento delle esistenti (a partire dalle cantine, che da ambienti esclusivamente tecnici vanno trasformate in spazi esperienziali), assunzione e formazione di personale specializzato, attività di promozione aziendale e distrettuale, apertura di centri d’accoglienza. È evidente che le aziende non devono essere lasciate sole perché una parte determinante di questo sforzo va fatta a livello territoriale, ma non è più possibile giustificare i risultati mancati con i limiti di sistema. I produttori devono aprirsi sempre più all’esterno, senza riserve, nella consapevolezza che fare il vino sarà, da qui in futuro, solo una parte della loro attività: sicuramente quella da cui tutto ha avuto origine, quella dove non si possono commettere errori, quella da cui deriva il prestigio, ma la vera ricchezza potrebbe derivare da tutto il resto.
David Pambianco