Trainato dal boom delle artigianali, il comparto nazionale ha acquisito peso economico e i gruppi industriali sono stati costretti a svoltare innovando il prodotto, puntando sulle “speciali”. Oggi l’Italia ha un saldo commerciale in attivo e la birra è l’unica categoria alimentare che aumenta nei consumi interni.
di Giambattista Marchetto
Chi l’avrebbe mai detto, soltanto dieci anni fa, che la birra sarebbe diventata un prodotto-icona del made in Italy, una bevanda alcolica da esportazione? Trendy e intrigante, hipster e pop, semplice e modaiola, conviviale, festaiola, dissetante e poco alcolica, tradizionale e innovativa, la birra vive una nuova primavera e non soltanto all’estero: è l’unica categoria food&beverage, come sottolineato da Federalimentari alla presentazione dei dati 2018, ad aver evidenziato un incremento quantitativo nel mercato domestico. E mentre a livello internazionale continua a godere dell’onda lunga della “rivoluzione craft”, la scena italiana sembra orientata ad evolvere in maniera specifica il rapporto tra prodotti industriali e artigianali, tra nicchia e mainstream. Una cosa è certa: l’Italia ha riscoperto l’esperienza della birra. Secondo l’Osservatorio Birra della Fondazione Birra Moretti, dal 2015 al 2017 il contributo della filiera della birra italiana alla crescita della ricchezza del paese è cresciuto del 12,9%, passando da 7,8 a 8,8 miliardi di euro (lo 0,51% del Pil).
I BENEFICI FISCALI
Stando ai dati di Assobirra, che con 40 associati rappresenta circa il 90% del mercato, negli ultimi 10 anni i consumi nel Bel Paese sono aumentati del 10 per cento, mentre nello stesso periodo il consumo di alcol pro capite nel paese è diminuito. “La birra – osserva il presidente dell’associazione, Michele Cason – intercetta questa sete di moderazione grazie al suo carattere di bevanda genuina a basso contenuto alcolico e, soprattutto, eclettica negli abbinamenti con il cibo. La diversificazione di prodotto portata avanti da grandi e piccoli produttori è uno dei principali driver di innovazione del mercato, unitamente alla valorizzazione delle materie prime locali, in alcuni casi anche nuove rispetto alla tradizione birraria. Negli ultimi anni le possibilità di produzione sono cresciute anche grazie alla fantasia dei mastri birrai italiani”. Uno studio curato da AstraRicerche conferma come la birra sia diventata un elemento del vissuto quotidiano per il 77% degli italiani, che la degustano prevalentemente a pasto. E nonostante da anni prevalga il consumo in casa (62,4% secondo l’ultimo Report Assobirra), il canale horeca è sempre più luogo di esperienza di prodotti nuovi. “I dati sulle vendite dell’ultimo trimestre 2018 (+ 6%) testimoniano che è in atto una destagionalizzazione”, rimarca Cason, rilevando l’apprezzamento dei consumatori per la varietà dell’offerta e un crescente desiderio di conoscenza dell’universo birrario (il 43% degli italiani è propenso alla sperimentazione di prodotti non conosciuti, secondo AstraRicerche). Grandi e piccoli produttori risentono positivamente dell’abbassamento delle accise (nel 2017) che ha contribuito a incentivare gli acquisti, trainati anche dall’export record (2,7 milioni di ettolitri nel 2017). “Il decremento della fiscalità ha dato una spinta al comparto – conclude il presidente Assobirra – generando un aumento della produzione, sostenuta da una filiera agricola moderna e da materie prime locali di qualità, e incoraggiando gli investimenti con effetti positivi anche per l’occupazione. In questo contesto, occorre aprire un cantiere di riforma per la legge sulla produzione che ormai ha oltre cinquant’anni, incoraggiando un approccio che si sta rilevando vincente per imprese e territori”. Nel frattempo, l’ultima legge di bilancio ha varato un altro piccolo alleggerimento fiscale per tutti e un taglio del 40% per i piccoli birrifici (sotto i 10mila ettolitri).
DA MICRO A MACRO BIRRIFICI
L’Italia della craft beer è un caso anomalo, a fronte della normativa unica al mondo che, nel 2016, definiva “birra artigianale” (con la possibilità di metterlo in etichetta) quella non filtrata e non pastorizzata prodotta da birrifici indipendenti sotto i 200mila ettolitri l’anno. “La soglia dimensionale è indicata da una direttiva europea, ma nel nostro paese c’è una netta prevalenza di microbirrifici. Basti pensare che la media dei nostri associati è 650 ettolitri”, specifica Simone Monetti, direttore di Unionbirrai, 300 aziende aggregate che raggiungono complessivamente i 200mila ettolitri. Difficile dunque il confronto sulla dimensione con altre nazioni, dove contano più le metodologie (negli Usa ci sono birrifici craft da 7 milioni di ettolitri), mentre l’allineamento si trova sul concetto di indipendenza. “Questo movimento cresce in tutto il mondo – rimarca Monetti – e in Italia l’avanzamento è stato consistente: siamo passati dall’1,5/2 per cento del mercato del 2012 al 3,5/4 per cento del 2018. Siamo lontani dal 15% del consumo craft negli Usa, ma il trend è positivo nonostante siamo i ‘peggiori’ bevitori di birra in Europa per quantità”. Anche se il consumo rimane molto stagionale, si prevede un aumento dei volumi. “Siamo convinti che stia arrivando, un po’ in ritardo, l’effetto di sostituzione di prodotti a più alta gradazione – conclude Monetti – e ci auguriamo che questo porti anche ad una maggiore consapevolezza rispetto alla qualità e alla diversificazione nel bere. Certo, la birra artigianale costa perché con piccoli volumi non si realizzano economie di scala nell’imbottigliato, però già sui fusti possiamo esser più competitivi e per i pub può essere una scelta vincente in termini di marginalità. E poi stanno crescendo i locali specializzati, non solo al nord che è la culla dei microbirrifici, ma anche nelle regioni del centro-sud”. E poi c’è l’export, che va bene perché l’artigianale italiana piace ed è percepita come innovazione di nicchia: il primo mercato è quello UK (e Unionbirrai non nasconde la preoccupazione per Brexit), ma anche nord Europa, Usa e Giappone apprezzano. Le criticità sono legate a fisco e burocrazia che spesso sono pesanti per le piccole imprese, ma anche Monetti esprime apprezzamento per le evoluzioni normative su cui le organizzazioni di rappresentanza stanno lavorando con il Governo.
ARTIGIANALE E INTERNAZIONALE
Che la musica sia cambiata è chiaro a tutti. “Quando 23 anni fa siamo partiti con le craft beer in Italia, influenzati dal movimento negli Usa, per i primi dieci anni ci prendevano come matti ed eravamo oggetto di scherno. Poi siamo diventati un caso da osservare, fino a quando l’industria ha iniziato a proporre le gamme speciali, riposizionando una parte della produzione”, ricorda Teo Musso, fondatore e anima di Baladin, il birrificio artigianale piemontese che con 25mila ettolitri si posiziona al vertice quantitativo della nicchia. “Anche in Italia – aggiunge – il mercato è cambiato e si è passati dalla birra al singolare alle birre. Le multinazionali hanno acquisito alcuni piccoli birrifici, cercando di tamponare quel 4% scarso conquistato dagli artigiani, ma io sono convinto che al mondo dell’industria serva questa vitalità sotterranea che rafforza il valore della birra in generale e fa da laboratorio di ricerca. Noi creiamo dieci nuove birre ogni anno e in Italia possiamo contarne forse 4mila, questo fermento fa bene a tutti”. Anche Musso enfatizza le potenzialità del made in Italy. “Oggi importiamo circa il 40 per cento della birra dall’estero e credo si possa far pendere la bilancia a favore delle nostre birre di qualità, valorizzando le artigianali e contestualmente le speciali proposte dall’industria, ma concentrando l’attenzione sulle materie prime. Quello che dobbiamo portare all’estero sono le nostre tipicità, la nostra terra, il nostro gusto e il design. Ecco, l’artigianale dovrebbe fare squadra e non concentrarsi sugli orticelli”. Pioniere del movimento, Musso è partito nel 1996 e oggi Baladin esporta il 15% della produzione, ha 14 locali di proprietà in Italia e due resort in Marocco e Tanzania. Inoltre, a breve, sono previste ulteriori aperture all’estero con punti di ristorazione. “Cambierà il modo in cui si beve, ma cambieranno anche i luoghi dove si beve. Ci saranno sempre più locali ibridi e brewpub contemporanei, giocati magari sulla filiera corta e sull’esperienza di degustazione all’interno del microbirrificio. Solo così anche i piccoli potranno reggere, per quanto nei prossimi 5 anni probabilmente il mercato degli artigiani si compatterà”. Il numero delle piccole realtà di produzione si sta già ridimensionando secondo Giuseppe Collesi, presidente di Tenute Collesi. Dal punto di vista dell’azienda marchigiana, che con 13mila ettolitri realizza un fatturato birra di 3,5 milioni di cui oltre il 20% dall’export, “oggi reggono il confronto con il mercato le aziende che investono sulle quantità, perché solo così si abbattono i costi e si riesce ad esser competitivi anche sul prezzo. Da quando abbiamo iniziato nel 2007 c’è stato un allineamento al ribasso e qualcuno è stato costretto a tagliare i margini pur di distribuire in bottiglia. Altrimenti l’alternativa è la vendita diretta, aprendo una mescita in house, allora i margini sono enormi”. Collesi è però impegnata nella crescita: “oggi giochiamo una partita importante sul mercato nazionale, dato che le birre artigianali sono probabilmente destinate a salire dal 4 al 7% nei prossimi anni, ma vogliamo rafforzare il nostro prodotto anche all’estero, perché oggi siamo apprezzati soprattutto in Giappone, Usa e Danimarca. E questo richiede pazienza e molte energie. Cresciamo a una media del 25% l’anno e puntiamo sulla comunicazione”. E l’obiettivo nel futuro prossimo è varare negozi monomarca Collesi con tutti i prodotti: birra e cosmetica da birra, distillati e diffusori d’ambiente.
I BIG E LE SPECIALI
Se il “fermento sotterraneo” delle birre artigianali spinge l’allargamento delle esperienze di consumo, il mercato birra è complessivamente in evoluzione. Il 2018 si è chiuso con il record storico per Peroni: il birrificio italiano ha superato infatti quota 6 milioni di ettolitri prodotti (+6,4% sul 2017), di cui 2,1 milioni destinati all’export su 71 mercati (approda in UK il 60%). In quattro anni l’incremento è del 19,46%. “A oltre 170 anni dalla fondazione, Peroni continua a rappresentare una grande esperienza industriale italiana capace di distinguersi sul mercato domestico e internazionale”, afferma Roberto Cavalli, Isc director Italia ed Europa. “La birra è l’unica categoria F&B a crescere, guidata dal segmento premium e superpremium” conferma Cristiano Marroni, direttore della business unit Superpremium Brands in Peroni. “I consumatori sono sempre più esperti e vogliono sperimentare. Crescono dunque le speciali e ovviamente le artigianali, ma i big hanno capito il trend e si attrezzano per andare anche verso la nicchia”. D’altra parte, i numeri di Superpremium parlano da sé: +8% dei volumi nel 2018, con la gamma base cresciuta a doppia cifra per 7 anni e la ceca Pilsner Urquell che che negli ultimi 4 anni ha realizzato un +50% per volumi in Italia. Che l’esperienza artigiana aiuti i big lo dimostra il successo della non filtrata Ichnusa: il brand sardo, appartenente al gruppo Heineken, ha lanciato un prodotto torbido che dieci anni fa “turbava” i primi clienti dei microbirrifici. Il colosso con base ad Amsterdam è presente in Italia con quattro birrifici, che nel 2017 hanno prodotto 5,7 milioni di ettolitri, e vince sul mercato grazie a brand storici come Moretti e Dreher, oltre a Ichnusa. E considerando che l’Osservatorio Birra attribuisce alle speciali il traino della ripresa della birra (+49,5% a volume e del +69,7% a valore dal 2010 al 2017), il gruppo Heineken ha fatto del Belpaese un vero laboratorio sperimentale: l’Italia è infatti il paese principe dove testare innovazioni come le Radler, le Regionali (Moretti), le limited edition (come H41, lager basata su un raro lievito selvaggio scoperto in Patagonia) o la recente Heineken 0.0 analcolica.