Si impone il fenomeno delle dark kitchen, ristoranti costituiti da sole cucine per fornire in esclusiva le piattaforme di delivery. I pro? Non intralcia il servizio al tavolo e permette al ristoratore di ottenere una crescita più che proporzionale. E ora sono in arrivo le cook room
Hanno diversi nomi, dark kitchen, dark restaurant ma anche ghost restaurant. Il concesso è sempre lo stesso e nasce negli Usa alcuni anni fa: si tratta di attività della ristorazione che lavorano esclusivamente con il servizio di delivery, senza un locale fisico in cui recarsi ma provvisti soltanto di cucina.
DAGLI USA A LONDRA
Dopo i primi tentativi a New York, con il tempo in numerose città degli Stati Uniti si sono affermate dark kitchen che propongono ogni tipologia di cibo, dalle insalate di Chopt Creative Salad Co. alla carne di Butcher Block. I vantaggi? Sulla carta sono notevoli, come l’abbattimento dei costi del personale di sala e la possibilità di avere un clientela ampia, potenzialmente infinita, svincolata dal numero di coperti. In Europa è stata Londra a fare da apripista. Oggi nella City è possibile trovare dark kitchen con cucine dal mondo, come quella italiana di Godo che, con la consulenza dello chef stellato milanese Tommaso Arrigoni, utilizzando partner nostrani quali Gentile e Gennari, realizza e consegna nelle case inglesi, in un packaging accattivante ed in esclusiva per Deliveroo, piatti contemporanei in vasi di vetro. In Italia la tendenza dei dark restaurant ha iniziato con timidi tentativi a Milano, la capitale nazionale dei food trend. Non tutto però è andato secondo le aspettative: sia l’healthy food di Rose&Mary, inaugurato nel 2017 e organizzato con un servizio di consegna interno, che il più recente My Poké, che solo con Deliveroo consegna l’ormai celeberrima pietanza hawaiana, hanno chiuso i battenti.
I PRIMI RISCONTRI
Solo alcuni ghost restaurant più recenti stanno cominciando ad avere un buon riscontro, fidelizzando la clientela grazie ad una proposta mirata e chiara. È il caso di Nanie.com, che ama definirsi bistrot digitale, con il suo menu mediterraneo proposto per la pausa pranzo con lo slogan our kitchen, your table. “Oltre a spazi più ridotti e assenza di personale di sala, la dark kitchen non ha necessità di trovarsi in zona di passaggio, questo va a incidere positivamente sugli affitti”, spiega Nanie Navarro, fondatrice del sito, “Ma è bene sottolineare che questo non regala alcuno sconto sulla qualità e sul grande lavoro che ci si deve mettere. Gli elevati costi di consegna, il rischio di danneggiare il prodotto, la difficoltà di creare un rapporto umano con il cliente e la necessità di maggiori e constanti azioni di marketing per creare awareness, sono elementi reali che richiedono massima professionalità per essere superati”. Uno step ulteriore viene fatto da DietItaly. Come suggerisce il nome, dopo una prima scheda compilata, si viene contattati da un consulente esperto con cui si andrà a comporre una vera a propria dieta. Al cliente non resta che segnalare preferenze e la quantità di pasti che desidera acquistare. Il servizio è pensato infatti per essere consumato con regolarità, anche da chi ha necessità specifiche, come prevede il servizio “Post-Surgery Diet” per chi, appena operato, ha bisogno di omogenizzati. Ma allora perché, con tanti risvolti positivi, il fenomeno dark restaurant fatica a decollare in Italia? Certamente la comunicazione, proprio come evidenziava Navarro, è un elemento che non si può trascurare. Un ristorante “canonico” può contare su elementi positivi intrinsechi della sua natura: la visibilità, una vetrina sia in senso fisico che metaforico; la casualità, con le persone che vengono a conoscenza o acquistano in un locale semplicemente perché ci sono incappate; la fidelizzazione, perché chi visualizza un luogo e i volti che lo popolano è più facilitato a ricordarsene.
FORMULE MISTE
Eppure nella ristorazione tutti guardano al digitale per superare i vincoli di un locale con posti limitati, che rendono necessaria, per chi vuol crescere, la strada dell’apertura di nuovi ristoranti con conseguente aumento esponenziale dei costi di locazione. Come rileva uno studio di Just Eat, nonostante il delivery sia in enorme crescita, il mercato è digitale soltanto all’11%, contro un 89% ancora legato all’offline, che si tratti di una prenotazione fatta di persona (quindi anche con il take away) o telefonicamente. È perciò comprensibile che molti ristoratori votati al delivery o all’asporto, come per esempio chi propone street food, optino per attività che, pur sfruttando il volano del digitale per abbattere i confini della propria attività, abbiano comunque una location fisica, magari ridotta al minimo, dove effettuare somministrazione. Tra gli esempi milanesi più affermati compaiono Pasta à gogo, specializzato in pasta fresca, e Fusho, format innovativo che propone sushi in formato burrito. “La nostra è una realtà di somministrazione mista, divisa tra un servizio di delivery e uno di take away e ristorazione veloce”, raccontano Mirco Spina e Ivan Bortot, soci e fondatori di Pasta à gogo. “Fin dalla sua apertura si è posizionato sul mercato del food come ‘prodotto soluzione’, secondo le terminologie del marketing attuale tipico della realtà urbana. Implica sia un concetto di qualità e artigianalità, con la pasta e i sughi che vengono prodotti in casa, sia un concetto estetico ed emotivo. Per questo crediamo che, nonostante le dark kitchen rappresentino una tendenza interessante, non si possa completamente prescindere da una visione di tipo classico, cioè di ristorazione tout court, perché i clienti mai come ora hanno il piacere di contestualizzare e vedere il luogo di produzione di ciò che consumano”. Bortot e Spina sottolineano come l’experience della clientela passi da ogni aspetto: “Entrare nel mondo Pasta à Gogo significa avere la certezza che i valori che intendiamo trasmettere e diffondere sono reali. Il nostro packaging è tutto compostabile, i colori e lo spazio di vendita sono votati a efficienza e funzionalità nella consumazione. Difficilmente tutto questo si può comunicare senza un locale dove accogliere le persone”. Spostandoci a Torino, la proprietà del Mu Dim Sum di Milano e del Mu Fish di Nova Milanese ha aperto Mu Bao, format dedicato ai panini al vapore cinesi. Qui il locale è composto da una singola vetrina, bancone ed un paio di sedute, il resto della clientela consuma direttamente al tavolo di casa o ufficio. “Siamo in centro a Torino, avere una vetrina sulla città è dunque per noi un valore aggiunto”, afferma Bin Zhou, titolare dell’attività nella città sabauda. “In questo modo, nonostante Mu Bao sia assolutamente orientato al delivery, per cui ci affidiamo a Deliveroo, il nostro business principale è l’asporto, utile a servire chi sta in zona ma anche chi è di passaggio e ci scopre, diventando magari un cliente abituale tramite app”.
PROGETTO COOK ROOM
Emerge quindi un altro aspetto allettante per chi decide di dedicarsi soprattutto all’online: la possibilità di testare un nuovo prodotto, una modifica al menu, una nuova area di consegna con elasticità senza impegnare esosi capitali. In questo senso, Deliveroo ha lanciato in Italia dal 2017 Deliveroo Editions, un programma che permette di ordinare solo online menu o piatti speciali realizzati dai ristoranti associati. Proposte che non si potranno trovare nei ristoranti ma solo online, per consentire agli chef e ai ristoratori di sperimentare, e alla piattaforma di farsi più attraente e alzare il livello. A fare tesoro di quanto le dark kitchen hanno insegnato e stanno insegnando è soprattutto Glovo che ha tradotto, ad oggi in Sudamerica e Spagna, ma dall’autunno 2019 anche a Milano (e successivamente in altre città italiane, probabilmente partendo da Torino), l’esigenza di elasticità dei ristoratori nel progetto Cook Room, a metà tra ghost restaurant e coworking. “Si tratta di spazi perfettamente attrezzati con cucine professionali, utensili, elettrodomestici, a disposizione di chi vuole lavorare con noi”, dice la general manager di Glovo Italia Elisa Pagliarani. “In molti hanno manifestato interesse per questa iniziativa: c’è chi ha un ristorante già attivo in città ma non ha spazio sufficiente per la richiesta, chi vuole coprire un’area maggiore e non ci riesce con i metri quadrati di cui dispone. E ancora, chi vuole testare la propria offerta su un’altra città ma non ha alcuna intenzione o possibilità di imbarcarsi in elevate spese per cercare e avviare un locale. I costi sono indiscutibilmente inferiori. Tra i plus che cercano gli interessati compare quello della praticità: le Cook Rooms abbatteranno i tempi di attesa, ma sapranno anche accogliere a dovere i riders, i quali spesso affollano ristoranti che non sono progettati per gestirli”. Ad affiancare questo progetti ci saranno anche i Dark Stores di Glovo, rivolti soprattutto al produttore diretto, saltando, ove possibile (il fresco è escluso) la grande distribuzione organizzata. I riders si dirigeranno direttamente qui a fare la spesa per il cliente.
Simone Zeni