Duecento anni di storia parallela, che hanno in comune la continuità e due piccoli paesi. I protagonisti sono Billecart-Salmon, produttore di champagne, e il ristorante Cacciatori. Il primo snoda le sue cantine a Mareuil-sur-Ay, in Francia, mentre il secondo poggia le sue fondamenta a Cartosio, provincia di Alessandria. E soprattutto sono due realtà, fatto piuttosto raro oggi, ancora condotte dalle rispettive famiglie fondatrici.
Celebrare insieme l’evento, 400 anni in due, è diventata una cosa quasi obbligata. Ovviamente partendo dal presupposto che le bottiglie francesi trovano un posto speciale nella carta dei vini del locale italiano. Allora ecco che nei giorni scorsi Billecart-Salmon ha deciso di brindare a Cacciatori, mentre il prossimo 9 novembre, sarà Cacciatori a cucinare per la festa italiana di Billecart-Salmon (distribuito da Velier). Un doppio evento per pochi intimi, visto e considerato che i coperti a disposizione nel ristorante sono solo trenta.
Cacciatori, condotto dalla famiglia Milano oggi con Massimo a occuparsi di sala e cantina e Federica in cucina, è l’ultima roccaforte di una tradizione nata lungo la via che collegava la pianura Padana alla Liguria e che si è estinta con l’inaugurazione dell’autostrada. Oggi il ristorante, che conta anche qualche camera ospitalità, è diventato famoso tra i turisti mitteleuropei che amano frequentarlo per la sua cucina rassicurante, rispettosa del territorio e della tradizione e che non cerca di stupire, ma piuttosto di lasciare un bel ricordo. Aspetto riuscito e che per il 2019 è valso, oltre ai riconoscimenti già attribuiti, anche la chiocciola delle Osterie d’Italia firmata Slow food.
Per raccontare invece Billecart-Salmon bisogna partire dalla sua produzione, che è di circa 2 milioni di bottiglie, tante per essere importanti, poche per essere universalmente famosi. Però tra i cultori del genere, la maison francese è famosa per aver introdotto nel anni ’50 la decantazione a freddo, per i suoi rosé, particolarmente apprezzati sui mercati internazionali, e per l’insolito utilizzo del meunier (che ufficialmente non è più un pinot) come bacca prevalente nella produzione del suo brut. Il tutto nel segno di un profilo fatto di discrezione e sostanza, giusto quello che serve per conquistare la cucina piemontese.