Nella classifica sui valori medi di acquisto dei terreni, la denominazione piemontese non ha rivali: servono fino a 4 milioni di euro all’ettaro. Domina la legge di mercato: poca offerta, prezzi esosi
Barolo come Bourgogne, Alto Adige come Bordeaux e Cartizze come Champagne. L’Italia e la Francia del vino non sono poi così distanti, nemmeno quando si ragiona in termini di valore per ettaro di vigneto. Certo, quando si sceglie di affrontare un tema delicato come il monetizzare un campo vitato si ha la consapevolezza iniziale di mostrare il fianco a una serie infinita di critiche e osservazioni. E questo a dispetto della meticolosità della ricerca, perché le eccezioni condizionali sono dietro l’angolo in quasi tutte le denominazioni dello Stivale. Dopo essere partiti dai dati del Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria), dopo aver dato un’occhiata a studi di settore, alle ultime compravendite e finendo con l’aver sentito i direttori dei consorzi, di sorprese non ce ne sono state: Il Barolo è il re della top 10 italiana. Lo seguono il Cartizze e l’Alto Adige.
SINGOLI AFFARI
Un trittico milionario, che vede la denominazione piemontese oscillare tra valori medi da un milione di euro a picchi da quattro milioni. All’ettaro, s’intende. In Veneto invece la media è addirittura più alta, 1,55 milioni, ma le punte si fermano solo mezzo milione di euro più in su, mentre dalle parti del lago di Caldaro si va tra gli 800mila e il milione. Ma già a questo punto arriva il primo nodo: si chiama Sassicaia. Partendo dal presupposto che la famiglia Incisa della Rocchetta non ha intenzione di privarsene, la domanda appare scontata: quanto valgono quei vigneti in Castagneto Carducci? La risposta è più facile di quanto si possa immaginare ed è più nella testa di chi vende che nelle tasche di chi compra. Quindi tantissimo, certamente più di quanto pagato finora in Barolo. Certo è vero, stiamo parlando di una sola cantina e lo stesso discorso potrebbe valere per altre aziende di pari lignaggio disseminate in giro per l’Italia. In Francia, a esempio, recentemente ci sono stati un paio di acquisizioni assimilabili per prestigio. Uno è Clos des Lambrays (8,66 ettari) che nel 2014 è stato acquistato da Lvmh (Moët Hennessy) per circa 100 milioni di euro. L’altro è Close de Tart (7,53 ettari) che nell’ottobre dell’anno scorso è finito nel portfolio della famiglia Pinault (che già possiede Chateau Latour) per circa 220 milioni di euro. Il tutto senza contare che entrambe le realtà della Bourgogne erano complete di immobili e di riserve in cantina, ma con una disposizione di filari pari a circa un decimo rispetto a quella del Sassicaia. Cifre che di per sé mettono a disagio, soprattutto considerando l’acquisto di un vigneto come un investimento che, prima o poi, dovrà arrivare a un pareggio di bilancio e, nei desiderata, anche a produrre utili. Una logica economica che comunque deve scontrarsi con gli effetti del tempo, come spiega Giuseppe Salvioni, amministratore delegato del Consorzio di Franciacorta: “Il ritorno sull’investimento è a tempi molto lunghi, basta guardare ai disciplinari sulla commercializzazione dei vini, che per noi significano da un minimo di un paio di anni d’attesa e che diventano quasi 6 se ci si riferisce alla riserva”. Discorso che naturalmente va esteso a tutti i tipi di vinificazione alto di gamma. Ma non è tutto, perché se da una parte tutte queste quotazioni à la française non fanno altro che innalzare il prestigio di un terroir, dall’altra, come ha fatto notare Andrea Ferraro, direttore Consorzio di tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe Dogliani: “Si sta arrivando a una situazione quasi paradossale, perché si è lavorato anni per promuovere la zona e arrivare a queste quotazioni, poi si scopre che noi non possiamo comprare”. E infatti i 60 milioni di euro spesi per la cantina Vietti sono arrivati dall’imprenditore americano Kyle Krause, anche se poi, a onor del vero e più recentemente, i due milioni di euro sborsati per il mezzo ettaro nel cru Cerequio di La Morra sarebbero attribuibili ai fratelli Mirco e Federica Martini. Poi certo, a queste cifre il mercato si crea anche quando tutto sembra fermo. D’altronde, come sottolinea Emanuele Coraglia, direttore tecnico del Consorzio piemontese, “se ipoteticamente l’offerta viene fatta a un viticoltore di 65 anni che possiede due ettari, che non vinifica e che ha figli a cui non interessa l’attività, a quel punto è difficile resistere”, aggiungendo poi che, “comunque sembra che chi doveva comprare lo abbia già fatto e i grandi, per ora, sembra che non siano intenzionati a muoversi ulteriormente”.
FRAMMENTAZIONE E SUCCESSIONE
Resta il fatto che la questione generazionale è un fattore importante, più di quanto si pensi, nel mercato della vigna. In una zona come quella del Cartizze sembra addirittura essere l’unica. Lo spiega Innocente Nardi, presidente del Prosecco Superiore docg di Conegliano e Valdobbiadene, di cui la sottozona di Cartizze rappresenta il top di gamma: “Teniamo presente che le transazioni sono pochissime e sui 107 ettari totali ci sono circa 150 proprietari, per questo il passaggio di un vigneto è sempre più per motivi di successione che di compravendita”. Più o meno la stessa cosa succede anche in Alto Adige, come racconta Max Niedermayr, presidente del consorzio vini Alto Adige: “Da noi si parla di cinquemila ettari per altrettante famiglie, quindi si tratta per lo più di piccoli appezzamenti nell’ordine dei 2/4 mila metri quadrati, che generalmente sono ceduti dopo un passaggio di successione a chi non è interessato all’attività, quindi il movimento non è molto, oltretutto esiste un diritto di prelazione ai confinanti”. Diametralmente opposto è invece quello che accade a Conegliano e Valdobbiadene considerate nel loro complesso e non come sottozona Cartizze: in tal caso, nella nostra classifica occupa la quinta posizione con valori di 350/700 mila euro, come afferma lo stesso Innocenzo Nardi, “perché in questi casi oltre alle cantine, a comprare vigneti sono anche i residenti, che vedono l’operazione come un’opportunità di investimento, o al limite come a una non svalutazione del capitale”. E pensare che, per chi fa finanza, il mondo del vino non è considerato un affare proprio a causa del deterrente vigneto… Già, perché fondi e private equity corrono veloci e non hanno il tempo per poter aspettare quei ritorni compassati tipici dell’agricoltura e del patrimonio immobiliare. Cioè l’esatto contrario di quanto succede con discreta frequenza in Toscana. A Montalcino, che si piazza al quarto posto della classifica con valori medi da mezzo milioni di euro a ettaro e punte massime da 750 mila euro, oltre all’esclusività del Brunello, “nel pacchetto sono offerti anche beni immobili”, spiega Giacomo Pondini, direttore del consorzio di tutela del Brunello di Montalcino. Questo aspetto non ha affatto penalizzato eventuali acquirenti. Basta guardare agli investimenti della francese Epi (Piper-Heidsieck), che si è presa Biondi Santi nel 2013, e dell’industriale belga Marcel van Poecke del gruppo Atlas Invest (energia e rinnovabili) che l’anno scorso ha comprato Poggio Antico. Di fatto, come sottolinea Giacomo Pondini, “negli ultimi tempi si sono affacciati nuovi attori, c’è molto interesse e potrebbero arrivare altri passaggi, perché le aziende di Montalcino sono un’opportunità sia in valore che in immagine”. E la stessa dinamica è avvenuta a Bolgheri con gli investimenti del magnate argentino Alejandro Bulgheroni con Tenuta Le Colonne e Tenuta Meraviglia, o ancora con l’acquisizione della Tenuta I Greppi da parte del manager irlandese Neil McMahon e di quella della Madonnina del russo Konstantin Nikolaev. “Se guardiamo a quelli che sono gli ultimi cambiamenti possiamo notare hanno per protagonisti tutti imprenditori facoltosi, che possono permettersi di non avere un ritorno immediato, per quanto riguarda invece i piccoli possedimenti in realtà di solito non è invogliato a vendere, anche perché denominazione è chiusa”, è l’opinione di Riccardo Binda, direttore del Consorzio per la Tutela dei Vini Bolgheri.
DESTINATI A CRESCERE
L’opportunità della valorizzazione oggi sembra essere rappresentata dalla Lugana, che chiude la top 10 con quotazione medie da 250 mila euro e picchi da 420 mila, ma che in questo momento, come ha indicato Carlo Veronese, direttore del Consorzio di tutela: “L’acquisizione di Cà Maiol da parte del gruppo Santa Margherita ha suscitato un po’ di interesse. In questo preciso momento non stiamo parlando di un mercato frizzante, ma c’è richiesta di terreni vitati, anche da parte di altri grossi gruppi”. Destinate alla crescita per valore, pur occupando la sesta e la settima posizione della classifica, sono la Valpolicella, che grazie all’Amarone ha dei picchi da 600mila euro l’ettaro, e il Barbaresco, che ricordiamo includere anche il ‘caso’ Gaja, e che si ferma a un massimo di 500mila, entrambi partendo da medie da 400mila euro. In sostanza, dare un giudizio sullo stato e sulla sostenibilità del valore dei vigneti italiani è piuttosto complicato. È chiaro che sul lunghissimo periodo l’equazione dovrebbe essere positiva per tutti, ma a una sola condizione, perché come ha ricordato Giuseppe Salvioni di Consorzio Franciacorta: “Tutto in realtà dipende dalla capacità dei produttori di posizionare bene le propria etichette e le proprie aziende, ma soprattutto bisogna che siano capaci di mettere in bottiglia un vino veramente buono”.
di Fabio Gibellino