Il cuoco va oltre i fornelli. Da artigiano, si sta trasformando in fenomeno mediatico e imprenditore non ancora pronto per l’industrializzazione del suo prodotto principale, che oggi è la ristorazione, ma domani potrebbe anche essere una linea di prodotti. Da haute couture a prêt-à-porter
Lo chef stellato italiano sta cambiando pelle. Da artigiano di nicchia, ha avviato un percorso che lo conduce nella direzione dei maestri francesi, ancora piuttosto lontani per capacità di espansione su scala internazionale: basti pensare al concept di ristorazione firmata Alain Ducasse, con estensioni dall’hospitality alla formazione all’editoria, o all’abbinata ristoranti-boutique che Joël Robuchon ha costruito nel mondo. Eppure, se confrontiamo la situazione attuale con quella di dieci anni fa, il quadro dei nostri cuochi è totalmente cambiato per potenza di fuoco e capacità di controllo qualitativo del loro new business. Così oggi capita di trovare il nome di Heinz Beck, bavarese di nascita ma romano d’adozione, nei suoi ristoranti a Tokyo e Dubai, quello di Niko Romito nei Bulgari Hotels di Shanghai, Pechino e ancora Dubai, quello di Carlo Cracco a Mosca. In altre parole, il cuoco si è fatto brand e in quanto tale si muove per conquistare nuovi mercati. E sono lontani anni luce i tempi in cui stava soltanto dietro ai fornelli in attesa del sospirato riconoscimento delle guide da cui dipendevano fama, visibilità e prestigio. Le stelle, sia chiaro, contano ancora e la guida Michelin continua a interpretare un ruolo importante nel determinare le sorti più o meno favorevoli a un professionista della cucina. Ma quelle stelle sembrano essere diventate non più il fine della sua attività, quanto piuttosto il mezzo, inteso come perno di un marketing mix che, se ben calibrato, può avere l’effetto di consolidare un team attorno alla figura solitaria e protagonista dello chef, mossa necessaria per sviluppare ulteriori progetti che dalla replicabilità del format arrivano fino alla brand extension. Il processo è nuovo e in pieno corso e i risultati li vedremo con più chiarezza nei prossimi quattro-cinque anni.
IL RUOLO DELLA TV
Tutto ciò non avviene soltanto nell’alta ristorazione. La firma, la mano e la faccia dell’artista del gusto hanno assunto un peso importante per lo sviluppo di progetti integrati in molti ambiti del mondo food, basti pensare a Iginio Massari nella pasticceria o a Raimondo Mendolia che apre pastifici artigianali oltreconfine. Eppure lo chef di rango ha assunto uno status differente, qualcosa di simile forse al Maestro nella bottega d’arte rinascimentale per l’aurea di gloria che lo circonda in ambiti trasversali, capace di eccellere dall’appetizer alla piccola pasticceria esattamente come gli artisti di un tempo riuscivano a operare in discipline differenti come pittura, scultura e incisione. Un alchimista dei tempi moderni, pur essendo perfettamente a conoscenza delle tecniche e delle tecnologie. La sua fama è stata però creata con il contributo decisivo dei media, attraverso la spettacolarizzazione dell’esperienza gastronomica in TV e sul web, alla quale di somma la novità dei social che devono ancora dimostrare, in quest’ambito, tutto il suo potenziale. C’è allora chi, come Carlo Cracco, oltre a gestire egregiamente la visibilità e le strategie di marketing della ristorazione, ha saputo trasformare la propria identità professionale in un marchio, e pazienza per la stella perduta nel 2017 che non pare aver provocato particolari danni alla sua attività. Il self branding diviene dunque una delle linee di evoluzione del business oltre i fornelli, perché quando rivela la propria passione per una patatina fritta o si presenta nelle cucine che furono dominio di Raffaella Carrà e Lorella Cuccarini, Cracco impersona se stesso e il proprio ruolo di testimonial. I progetti di sviluppo del fatturato sono facilmente leggibili anche nell’estensione delle aree di operatività, ed è il caso dei fratelli Cerea, con il servizio catering di eccellenza, o nella differenziazione dei format, processo su cui i fratelli Alajmo si muovono con una progettualità ormai rodata.
CIBI FIRMATI
Al di là della ristorazione replicabile, delle apparizioni televisive, dell’attività editoriale e delle sponsorizzazioni, qual è l’evoluzione naturale e immediata di uno chef che si trasforma in brand? Una risposta giunge dai prodotti alimentari “firmati” direttamente dallo chef, come espressione prêt-à-porter di una qualità offerta nella maison che è il ristorante. Da Ragusa a Vienna, Ciccio Sultano ha annunciato l’apertura di Pastamara, un bar con cucina nella capitale austriaca all’interno dell’hotel The Ritz Carlton in cui saranno in vendita i prodotti a marchio Sultano da lui stesso selezionati. Progetti simili, con prodotti chef-branded, sono stati portati avanti da Moreno Cedroni (La Madonnina del Pescatore e Anikò salumeria ittica a Senigallia, Clandestino a Portonovo) e dallo chef della cucina pop Davide Oldani (D’O a Cornaredo). Eppure l’approccio non sembra essere orientato, almeno culturalmente, ad una dimensione aziendale. “Io credo sia una questione di curiosità – rimarca Oldani – perché quello è l’ingrediente fondamentale nella mia vita, è quello che mi consente di andare avanti nel mio mestiere. Ed è proprio per curiosità che mi pongo in situazioni parallele, che comunque fanno capo al cibo e alla cucina”. Dalla curiosità nascono mille opportunità di lavoro e di relazione. “Anche se quello che cerco di mantenere – specifica lo chef – è un approccio molto etico al lavoro. Se scelgo di abbinare la mia immagine a un prodotto è perché corrispondono al mio modo di pensare e di vivere”. L’ampliamento dell’orizzonte, nell’ottica di Oldani, non è frutto di una visione aziendalista. “Piuttosto la definirei una bottega artigianale evoluta, dove non c’è standardizzazione ma molto lavoro di squadra. L’autenticità è legata alle persone e alla passione, non solo in cucina”. E poi è un modo rafforzare il peso della squadra. “Quando lavoro su un progetto non c’è solo la mia faccia, ma deve emergere anche il ruolo dei collaboratori che sono straordinari. Noi siamo pagati per il servizio che diamo al ristorante, e questo è un lavoro che deve esser fatto a prescindere dallo chef. Io sono in cucina nel 99% dei casi, ma credo che esser bravi significhi saper coinvolgere una squadra che lavori ad alto livello comunque. Abbiamo superato i 15 anni di attività e la qualità del nostro lavoro è cresciuta spropositatamente”.
EMANAZIONE DEL FARE
Anche Moreno Cedroni ha iniziato a vendere prodotti brandizzati in tempi non sospetti. “Volevo offrire dei cibi legati alla mia visione della cucina e l’ho fatto, indipendentemente da alcuna riflessione sulla forza di un brand. Ho iniziato a proporre i panini quando sembrava una deminutio, ora lo fanno in molti. Certo, negli ultimi 10 anni è esplosa la consapevolezza delle potenzialità legate alla figura e alla fantasia dello chef… ma io continuo a preferire il ruolo del cuoco. Mi piace interagire con le persone, quando posto una foto su Intagram lo faccio per condividere il mio lavoro. Non c’è una strategia, anche se poi son soddisfazioni quando i follower aumentano”. Per Cedroni “tutto questo è un’emanazione del fare, dello stare in prima linea in cucina con l’adrenalina che sale”. E proprio per questo il perno rimangono “umanità e artigianalità del lavoro”.
di Giambattista Marchetto