Mentre il mass market rallenta, il top di gamma guadagna posizioni con progetti di filiera controllata dal grano al molino interno. I cru nelle tipologie monograno
Anche la pasta, come altri prodotti alimentari made in Italy, evidenzia un andamento contrastante. Se il mass market appare in calo, la nicchia offre segni di vitalità con un vantaggio, ad esempio, rispetto al vino: il differenziale tra il top di gamma e il basic, per una linguina o un pacchero, non risulta poi così elevato come lo è tra un rosso doc “normale” e un supertuscan, tanto da rendere perfettamente accessibile il consumo di una pasta gourmet all’interno di un nucleo familiare o di un ristorante dove un pacco può bastare per 5-6 persone. Perciò, continuando il parallelo con il nettare di Bacco, se ne consuma complessivamente meno, anche perché un eccesso di pasta ha le sue controindicazioni a livello dietetico, ma sale il livello qualitativo. Il risultato è che le rilevazioni Nielsen di metà 2018 mostravano una flessione dei volumi di vendita (-1,2%) e dei fatturati (-0,7) relativi al comparto, con un rosso “pesante” per la pasta secca confezionata (-2,2% a volume; -2,9% a valore). E a risollevare le sorti della tradizione italica rimangono i brand artigianali, i pastifici con produzione di nicchia o regionalizzati, i produttori di pasta fresca.

AVANZA IL LUSSO
Certo, non tutte le confezioni sono alla portata della media famiglia italiana. Anche la pasta ha i suoi Hermès, in termini di prezzo, come dimostra il nuovo brand Uno.61, prodotto dal maestro pastaio Raimondo Mendolia con una selezione di grano duro italiano, lavorata a mano, trafilata in oro ed essiccata a lungo a bassa temperatura per garantire il rispetto dell’impasto e una superficie ruvida e porosa. Ogni pacco da mezzo chilo di pasta è “vestito” in un packaging unico e sartoriale creato dal sarto pugliese Angelo Inglese ed è venduto – online o nei tre negozi d Firenze – a 15,90 euro, decisamente oltre la media. Uscendo dalla pasta per big spender, troviamo le confezioni realizzate da decine di piccoli produttori sparsi per la penisola, capaci di offrire eccellenze legate alla tradizione e alla lavorazione in chiave artigianale. E i loro conti, pur non potendo competere con quelli dei big di settore tra i quali spicca naturalmente il leader Barilla con quasi 3,5 miliardi di ricavi nel 2017, sono in crescita. Esistono però i limiti, tipici delle produzioni artigianali, originati dalla necessità di selezionare la materia prima e dalla difficoltà di replicare produzioni in chiave industriale, che farebbero perdere la stessa connotazione originaria del prodotto. Il Pastificio Iannini di Monteprandone, nel Piceno, produce circa 6mila quintali di pasta l’anno e lavora solo semole italiane varietà Cappelli, semole di grano duro e farina di farro. A Torralba, nel Sassarese, il Pastificio Brundu produce 25 formati di pasta – dai regionali sardi ai classici – e con una capacità produttiva di 23mila chili al giorno serve oggi il mercato italiano, l’Europa e pure Bielorussia, Messico, Brasile, Medio Oriente e Cina. A San Casciano in provincia di Firenze, l’università gestisce attraverso la scuola di Agraria la tenuta Villa Montepaldi (circa 300 ettari e una villa medicea) e da 8 anni, con i grani antichi coltivati in queste terre, viene prodotta pasta artigianali da varietà senatore cappelli e timilia farro lungo. C’è la nicchia della nicchia, e poi ci sono realtà più strutturate a tenere alta la bandiera della pasta made in Italy, con andamenti variabili ma in crescita. REAZIONE AL DISCOUNT Il 2018 è stato segnato da un passaggio importante per Felicetti, che dal Trentino ha conquistato una leadership nell’alta gamma, con oltre 20 milioni di kg di prodotto annuo e un fatturato di 37 milioni realizzato per il 70% all’estero. Con un investimento di circa 28 milioni di euro, ha preso avvio il progetto per la realizzazione del nuovo stabilimento produttivo di Molina di Fiemme, dato che la domanda è arrivata a saturare la capacità dello stabilimento storico di Predazzo. Un’operazione strategica che ha portato anche all’apertura dal capitale ad un socio investitore e che non esclude la quotazione a medio termine. Un percorso di crescita virtuoso, che parte da lontano. “A metà anni ‘90 – racconta il CEO Riccardo Felicetti – il mercato che stava cambiando radicalmente e stava subendo, soprattutto in Italia, un’evoluzione verso grandi concentrazioni distributive e l’avvento dei discount, con la chiusura repentina di un numero elevato di negozi di generi alimentari in cui la figura del negoziante era ancora prevalente sullo scaffale. Questo fenomeno ci ha spinti a ragionare sul futuro della nostra azienda e sul valore che avrebbe potuto trasmettere. Producendo pasta in uno dei posti più belli del mondo, le nostre scelte sono state non solo economiche, ma soprattutto di tipo culturale, ambientale, di rispetto del territorio”. Ecco allora l’avvento del biologico, “forse uno dei segmenti emergenti in quel momento, che poteva darci anche una caratterizzazione innovativa”. Felicetti ha scelto allora di spingere sul contatto stretto con il mondo agricolo, dedicando la ricerca alle specie varietali. “A partire dai monograni, continuiamo a lavorare sullo sviluppo delle materie prime abbinandolo all’innovazione tecnologica”, aggiunge il CEO. Se è vero che oggi c’è molta visibilità per i formati speciali o regionali, per i grani antichi e sul prodotto biologico, secondo Felicetti la contrazione del mercato della pasta industriale non è da addebitarsi alla crescita della parte artigianale. “Difficile parlar di erosione del mercato da parte dei piccoli – afferma – perché nove consumatori italiani su dieci sono ancora molto tradizionali. Anzi, la segmentazione del mercato ha fatto un gran bene perché ha elevato il valore del prodotto, arricchendolo di fibre e proponendo l’integrale e poi il bio, fino a legumi, riso e gluten free. Tutto questo ha creato nuovi momenti di consumo”. Il vero nemico del consumo di pasta sarebbe invece il “bombardamento mediatico” che ha posto la pasta sul banco degli imputati. “Partendo dalla carbofobia per arrivare alle accuse di avvelenamento per l’uso di grano straniero, sono molte le cause della disaffezione soprattutto tra i giovani. E se la carbonara golosa tira ancora, vedo una prospettiva comunque complessa soprattutto se continuiamo a vedere la pasta come un mix di tradizione, storia e cultura, mentre il nostro fruitore dovrebbe essere uno da smartphone e Netflix. Per questo dovremmo offrire un’esperienza nuova e contemporanea, dalla cottura al consumo, per conquistare il consumatore del futuro”.

FILIERA BIO
Gino Girolomoni è un nome storico del ‘bio’ in Italia. Fu lui il fondatore del brand Alce Nero, attualmente controllato dall’omonima società, e poi una volta uscito dal gruppo ha fondato la cooperativa agricola Gino Girolomoni, portata avanti dalla sua famiglia dopo la scomparsa del grande padre urbinate dell’agricoltura biologica. Oggi ha nella pasta il proprio core business con un obiettivo ambizioso: coprire l’intera filiera in house. “La nostra è una coop di agricoltori che produce cereali e li trasforma in pasta”, rimarca il presidente Giovanni Battista Girolomoni. “La materia prima proviene principalmente dai 200 soci conferitori e da piccoli produttori con contratto di filiera”. Quando nel 1989 iniziò la produzione di pasta, il trend bio e integrale era ben lontano dall’esplosione attuale. “I soci hanno investito sul biologico fin dall’inizio – spiega Girolomoni – anche se la pasta bio non si vendeva benissimo e venivamo accusati di pubblicità ingannevole, con tanto di sequestri frequenti, dato che la normativa non è stata definita fino agli anni 90. E poi siamo stati tra i primi al mondo a produrre pasta integrale, che non si poteva chiamar tale perché vietata dalla legge sulla purezza della pasta degli anni ‘50”. Storie pionieristiche che, con due cambi di nome, hanno portato alle attuali 7500 tonnellate di pasta biologica prodotte nel 2018, realizzando un fatturato di circa 12,5 milioni per l’80% da export in 23 Paesi. “Siamo cresciuti sempre e gradualmente, anche per le scelte commerciali. In Italia la distribuzione è nei negozi specializzati bio e attraverso i gruppi di acquisto solidale, con pochissimo spazio in horeca. In Francia siamo nella catena Biocoop, la più grande in Europa, e negli Usa siamo in Whole Foods (acquisita da Amazon, ndr) e in altre catene di alta gamma, mentre in Germania produciamo per il private label. Non abbiamo mai avuto problemi a vender la nostra pasta, perché avevamo intuito con largo anticipo il successo del bio e siamo stati tra i primi a lavorare sui grani antichi“. La pasta Girolomoni oggi si misura con una concorrenza agguerrita nell’ambito dei prodotti bio, ma rivendica lo status agricolo e il rapporto stretto con i produttori, scelte qualitative (come la lenta essiccazione) e ambientali (solo energia da fonti rinnovabili). E a breve sarà attivo il nuovo mulino, che permetterà di gestire in proprio l’intera filiera dal seme alla confezione. “Abbiamo cercato di rimanere coerenti nelle scelte – conclude Girolomoni – e gli agricoltori rimangono il perno. Ora alziamo l’asticella. E nonostante i negozi specializzati siano sotto l’attacco della Gdo, noi continuiamo a crescere posizionandoci sull’eccellenza”. FOCUS ALTA RISTORAZIONE Le radici sono una rivendicazione anche del pastificio Mancini di Monte San Pietrangeli, in provincia di Fermo. “Il nostro è un progetto partito come azienda agricola e si sta sviluppando come azienda agricola”, sottolinea Massimo Mancini, che guida l’azienda di famiglia. Dai 60 ettari coltivati dal padre per conferire a commercio e industria, una rivoluzione (generazionale) durata 10 anni ha portato a 600 ettari lavorati e alla gestione diretta della trasformazione. Il target principe del pastificio marchigiano è l’alta ristorazione. “È stata fin da subito una scelta voluta quella di presentarci ai ristoranti più importanti – spiega Mancini – perché sono attenti alla qualità che era fondamentale per noi, e perché dà credibilità in chiave di comunicazione. E poiché le Marche sono conosciute soprattutto per la manifattura calzaturiera, il lavoro sulla pasta nobilita il nostro grano”. Oltre all’horeca, Mancini copre anche una fascia alta di negozi specializzati, mentre rimane distante dalla Gdo. La chiave del successo? Mancini ha una risposta pronta. “Il confronto costante con chi cerca la qualità, con gli chef e con i gestori di negozi qualificati. Negli ultimi dieci anni il nostro messaggio non è cambiato di un millimetro. Rimaniamo un pastificio che trasforma il proprio grano con attenzione alla materia prima. Quando siamo partiti non era facile, oggi veniamo invitati alle presentazioni e non sono pochi i ristoranti, stellati e non, ad avere Mancini in carta. E credo ci siano margini di crescita enormi”. In particolare nell’export, dove la capacità di attrazione dell’eccellenza italiana è sempre più forte, a partire dagli Usa.
