Un business da 2,5 miliardi di euro, e in Italia siamo solo agli inizi. L’enoturismo ha potenzialità enormi ma vanno sfruttate con più convinzione dalle aziende, che devono organizzarsi per accogliere i visitatori, investire in formazione e comunicazione. Ma il principale limite è di sistema.
Il dato, 2,5 miliardi di euro, va preso con prudenza. Tanto vale, secondo il XIV° rapporto nazionale sul turismo del vino, il business complessivo dell’accoglienza nelle cantine italiane. Per fare un paragone, è quasi il 50% dell’export complessivo dell’Italian wine, che nel 2017 ammontava a 5,4 miliardi. Certamente non sono tutti soldi destinati alle aziende vinicole, trattandosi di risorse distribuite nei territori interessati tra le varie attività legate al turismo (hotel, ristoranti, shopping). Inoltre, il dato è indicativo perché si basa su un valore stimato risalente al 2015 che l’ultimo rapporto, curato dall’Università di Salerno per conto delle Città del Vino, ha sottoposto al proprio campione, ottenendo dal confronto un 52% di impressioni di aumento del fatturato, un 37% di stabilità e una quota minima (1%) di riduzione, mentre il 10% non ha offerto risposte. È quindi possibile che gli incassi dalle attività collegate al vino e all’ospitalità, nell’ultimo anno, siano aumentati e nemmeno di poco, sensazione alimentata dalla crescente attenzione delle aziende vinicole pure (esclusi gli imbottigliatori, che non hanno proprietà e quindi sono fuori dai giochi) verso l’incoming di enoturisti nelle loro proprietà. Da attività saltuaria, lanciata negli anni Novanta con Cantine Aperte, l’accoglienza si è quindi trasformata in affare continuativo, il cui modello di business prevede almeno quattro forme possibili di redditività: la vendita diretta, il ticket d’ingresso (con relativo servizio di degustazione), la ristorazione e il pernottamento. Fare il vino, in prospettiva, diventerà solo una parte del lavoro svolto in cantina. Tutto il resto contribuirà ad aumentare la marginalità per le imprese, e al tempo stesso il valore e la percezione del brand.
MEGLIO DEI MUSEI
La distribuzione di queste risorse è alquanto difforme nel territorio italiano. “Ci sono zone avvantaggiate e zone svantaggiate – spiega a Pambianco Magazine Wine&Food Martha Friel, ricercatrice in economia e gestione delle imprese allo Iulm ed esperta di enoturismo – perché è evidente che le cantine della Valpolicella o di Franciacorta, posizionate vicino ai laghi, o in Toscana attraggono più di quelle lontane dai flussi turistici. In ogni caso, anche nei territori più sviluppati, credo di poter dire che gli investimenti sono partiti, certamente, ma siamo poco più che all’inizio. E la percezione è che l’affare stia esplodendo tra le mani delle stesse aziende”. Friel cita un dato: ci sono cantine che ospitano fino a 60-70 mila visitatori l’anno. “Per fare un paragone, musei italiani di un certo prestigio non arrivano a tanto”. E per dire che siamo quasi all’anno zero, Friel ricorre all’esempio dei visitor center, totalmente assenti dai nostri territori del vino. In sostanza, chi arriva nelle denominazioni non sa come muoversi, se non ha organizzato per tempo le viste nelle cantine spesso attraverso tour operator che iniziano a svolgere questo servizio di intermediazione. Le aziende hanno fatto la loro parte investendo fin dagli anni ‘90 per creare cinque tipologie diverse di offerta che potessero risultare attrattive e accoglienti: 1) cantine di design con spazi espositivi, auditorium e tasting area; 2) interventi di miglioria nei vigneti; 3) hotellerie e ristorazione; 4) wine spa; 5) musei aziendali (Lungarotti, Masi etc), più frequenti però tra le distillerie rispetto al vino. Quando però si arriva alla formulazione di proposte a livello territoriale, compito che dovrebbe spettare al settore pubblico, è raro imbattersi in un’offerta più ampia di quella della singola azienda. Un caso virtuoso, citato da Friel, riguarda la Toscana, che ha messo in rete le cantine realizzate da archistar realizzando qualcosa di simile a quanto fatto, per citare un altro esempio illustre, dall’Emilia Romagna per la motor valley, con informazioni su tutti i musei dell’automobile e con sistemi di ticketing e di booking online. “I flussi sono imponenti e vanno redistribuiti – afferma Friel – perché ben presto ci saranno destinazioni vinicole sovraffollate e quindi avranno spazio tutti gli altri territori. Occorre però saper affrontare le criticità collegate all’enoturismo, e non soltanto a livello pubblico: le cantine devono essere strutturate per l’accoglienza, con tutto quel che ne deriva, e devono assumere personale specializzato. Se lo faranno, il ritorno sarà importante non soltanto per il pagamento dei servizi venduti, ma anche e soprattutto per l’incidenza della vendita diretta sul loro fatturato”. Vendita diretta che, notoriamente, comporta margini superiori e incassi immediati.
OLTRE I LIMITI DI SISTEMA
“Noi abbiamo stimato 13,4 milioni di praticanti dell’enoturismo”, afferma Floriano Zambon, ex sindaco di Conegliano Veneto e tuttora presidente dell’associazione Città del Vino. “Calcolando un consumo medio dai 60 ai 100 euro, senza necessariamente considerare il pernottamento e tutto il resto, solo con questi siamo sul miliardo di euro”. Secondo Zambon, le cantine e i territori dove esse sorgono sono ben consapevoli delle potenzialità dell’accoglienza e gli investimenti altro non sono se non la conseguenza di questa certezza. “Le cantine di nuova impostazione sono ideate per il 50% in prospettiva incoming. Inoltre, quelle storiche stanno lavorando appieno per creare musei, esponendo così quel che hanno di diverso dalle altre. È un treno in piena corsa, ma c’è la necessità di normare in maniera organica questo terziario evoluto e il cui contesto non è facilmente comprensibile agli stessi funzionari del ministero competente”. E il riferimento di Zambon va all’emendamento Stefani approvato nell’ultima legge di bilancio, che consente di svolgere le attività enoturistiche in cantina, prima sostanzialmente abusive. “L’emendamento era corretto, quel che ne è seguito invece no” afferma Donatella Cinelli Colombini, presidente dell’associazione Le Donne del Vino, antesignana dell’enoturismo in Italia e soprattutto ideatrice di Cantine Aperte, manifestazione che ha fatto conoscere le realtà vinicole italiane ad appassionati e non. “Il nuovo ministro Centinaio è esperto di turismo e credo pertanto che darà un indirizzo chiaro, cancellando tutte le cose inutili che sono state aggiunte nel frattempo”. Parlando di limiti di sistema, Cinelli Colombini non ha dubbi nell’indicare nell’assenza di un ministero del Turismo e nell’attribuzione delle competenze sull’enoturismo al ministero dell’Agricoltura la prima causa dei ritardi accumulati. “Senza guardare agli Usa, basti considerare i francesi: la differenza rispetto a loro è enorme ed è un miracolo aver ottenuto quel che abbiamo ottenuto. Basti pensare a un fatto: chi arriva nelle nostre colline non trova nemmeno le indicazioni delle cantine perché, pur pagando, possiamo mettere al massimo due cartelli. E parlo di zone come Montalcino o come le Langhe, dove spesso non funziona nemmeno il satellitare”. Ed è indispensabile trovare una soluzione, perché le potenzialità, afferma Cinelli Colombini, sono a dir poco spaventose. “Parliamo di due settori, vino e turismo: il primo vale 80 miliardi di dollari a livello mondiale, il secondo 1.300 miliardi. Questi sono gli ordini di grandezza. È un lavoro serio, che non si improvvisa, ma rappresenta ben più di un’opportunità”. In altre parole, gli investimenti delle aziende non possono bastare, anche perché le aziende italiane sono mediamente piccole. Per decollare in maniera organizzata, occorre una strategia di sistema.
di Andrea Guolo