Lavorare in simbiosi con il territorio, valorizzando le materie prime e creando un patto di filiera. La filosofia di Norbert Niederkofler ha assicurato la terza stella al St. Hubertus ma è una modalità irreplicabile, con la sola eccezione di un rifugio tra le vette dell’Alto Adige…
Cuoco, montanaro e altoatesino. Norbert Niederkofler incarna l’ideale non solo dell’identità territoriale in cucina, ma anche del rispetto del territorio. La sua figura professionale è cresciuta, fino a conquistare la terza stella Michelin, in armonia con l’ambiente dove opera dal 1996. Fu allora che iniziò il sodalizio tra lo chef e il Rosa Alpina a San Cassiano in Alta Badia, dove approdò dopo una serie di esperienze vissute oltre le sue montagne passando, tra le altre, per le “scuole” di Eckart Witzigmann a Monaco di Baviera e di David Bouley a New York. E oggi Niederkofler rappresenta un modello non tanto economico, quanto di applicazione dell’etica nell’alta ristorazione, modello rafforzato da una serie di iniziative tra le quali spicca sicuramente l’evento Care’s – The etichal chef days che ha posto, per la prima volta, il tema della sostenibilità al centro della scena gourmet.
Come ha costruito il suo modello di ristorante?
Passo passo, avendo ben chiaro il progetto finale. Quando Paolo Piccinini nel ’96 chiese la mia collaborazione, lo fece perché puntava a far entrare il suo hotel, il Rosa Alpina, nella catena Relais & Château. Senza una cucina all’altezza non avrebbe potuto ottenere il riconoscimento. Per i primi quattro anni il St. Hubertus ha convissuto con una pizzeria e fino al ’98 non avevamo un’entrata separata per il ristorante. All’epoca partecipavo a vari eventi internazionali, giravo il mondo proponendo la mia cucina in abbinamento ai vini altoatesini (Alois Lageder mi accompagnava spesso). Nel 2000 arriva la prima stella. In quel momento il compito per il quale ero stato assunto era finito, avrei potuto andarmene.
E invece?
Ricordo bene la telefonata del mio mentore tedesco, Eckart Witzigmann. Totalmente incredulo e sbalordito dal riconoscimento, mi confida che non avrebbe mai pensato possibile che in un luogo così, perso tra le montagne, sarebbe potuta arrivare la stella. Mi sfidò, forse… fatto sta che decido di restare, a patto di cambiamenti drastici. La pizzeria viene chiusa. Cominciamo con la Limonaia (cucina di mare), La Fondue Stube (fondute di formaggio o carne) e il Wine Bar & Grill (con piatti di carne e verdure alla griglia). Togliamo la mezza pensione, con una perdita del 50-60% della clientela. Ma dovevamo staccare il target dell’hotel da quello del ristorante, che doveva puntare a reggersi in piedi da solo. Nel frattempo abbiamo fatto catering, organizzato eventi nazionali e internazionali, e ho fondato la Chef’s Cup.
Nel 2007 arriva la seconda stella…
La nostra clientela in quel momento è già internazionale, bisogna andare oltre. Non potevo più continuare a usare ingredienti che si trovavano anche in altre cucine nel mondo. Nel 2010, con la nascita del mio primo figlio, Thomas, nasce anche Cook the Mountain (filosofia di cucina che è diventata la realizzazione di una filiera della montagna, utilizzando solo ed esclusivamente i prodotti di montagna, nda).
Ma a chi vi chiedeva i classici piatti internazionali in carta da tempo, tipo la composizione di foie gras, cosa rispondevate?
Che non li avrebbero mai più mangiati al St. Hubertus! Lo stacco è stato netto. E quando dico che usiamo solo prodotti della montagna, significa che non usiamo il limone, per esempio. Niente pesce di mare, né prodotti di serra. Sul piatto c’è solo la montagna. Così uso la nostra materia prima al cento per cento, non ci sono scarti, per esempio solo animali interi sfruttando ogni parte, anche quella meno nobile.
Con quali conseguenze?
Lavoro a costi differenti. E posso raccontare e spiegare ai miei clienti da dove viene ogni ingrediente, narro le tradizioni tramandate nelle nostre montagne, perché vado personalmente dai contadini, dagli artigiani del gusto, dagli allevatori. Con un profondo rispetto della terra, degli equilibri dell’ambiente, dei ritmi della natura, seguendo la stagionalità. I miei clienti devono vedere, annusare e gustare le montagne nei loro piatti, a trecentosessanta gradi.
Ha mai pensato di creare un brand con questi prodotti della montagna?
Ci ho pensato, ma per il momento è troppo complicato.
Nel 2015, dopo dieci anni, chiude la Chef’s Cup e parte con Care’s. Perchè lo ha fatto?
Era diventato un evento di successo, con troppa gente, lifestyle, non mi riconoscevo più. Non era più coerente con quello che ero e sono io oggi. Care’s invece riunisce in congresso cuochi che si impegnano per la sostenibilità, l’ecologia e la solidarietà. Già il nome lo dice: prendersi cura. Promuoviamo un approccio etico, puntando a un uso consapevole delle materie prime, considerando il riciclo e il riutilizzo degli scarti ma non solo nei nostri ristoranti… Vorremmo trasferire il messaggio alle singole persone e alle grandi aziende.
Nel 2017 arriva la terza stella.
Sì, e la motivazione è stata particolarmente toccante per me. “… l’incontro con questa cucina non è un pasto, ma un’indimenticabile esperienza umana”. Perché io ho sempre creduto nei giovani della mia squadra. Sento la responsabilità del futuro e devo sempre pensare oltre anche per loro. Credo che dovremo ripensare alla quantità di ore dedicate alla cucina ed equilibrarle, per dare ai giovani una qualità di vita diversa. Io ho lavorato moltissimo per posizionarci dove siamo ora e non avevo budget, neppure per la stampa. Ho dovuto trovare delle strade nuove e diverse.
Come ha trovato queste strade?
Me l’ha insegnato la montagna, è una grande maestra per chi la vive sempre come noi. La montagna ti mette davanti più sentieri e tu devi scegliere quello giusto per arrivare; la montagna ti fa sorgere il dubbio: ce la posso fare ad andare avanti per questo sentiero o devo cambiare strada? O devo fermarmi per recuperare le forze? E poi qui per 5 mesi l’anno non cresce nulla: o ti fai venire delle idee o devi lavorare tanto d’estate per poter mangiare anche d’inverno…
Appena ha ottenuto la terza stella, invece che aumentare i posti a sedere, li ha diminuiti. Perché?
Da 50 posti sono passato a 40, per dare un servizio migliore. Ho deciso che il menu fosse solo degustazione, uno dedicato ai grandi classici del St. Hubertus, l’altro a Cook the Mountain. Ho studiato dei menu in cui si utilizza tutta la materia prima, trovando il break even point. Lei dichiara che in Spagna ci si concentra sulla tecnica, che nei Paesi nordici la cucina non è cultura ma una geniale idea di business, mentre la cucina italiana è prodotto e cultura. Ma c’è il business nella cucina italiana? Sappiamo che molti ristoranti italiani stellati faticano a mantenersi. Certamente che c’è del business, un grande business. Ma noi sottovalutiamo gli affari che potremmo fare, siamo poco professionisti del business perché viviamo di pancia. È il nostro pregio ma anche il nostro difetto. Come viviamo noi la materia prima non la vive nessuno. Dobbiamo imparare a portare la nostra qualità, nella quale siamo i numeri uno, nel mondo. Anche per il futuro dei nostri giovani.
Qual è la sua visione dell’economia applicata all’alta ristorazione?
Credo che si legga molto bene nei vari passaggi che abbiamo fatto al St. Hubertus e che vi ho raccontato. Sottolineo che va valorizzata la microeconomia legata al luogo dove si opera. Noi andiamo direttamente dai contadini, non abbiamo intermediari. Così abbiamo fatto sì che i giovani siano rimasti a lavorare a casa loro. I masi sono curati e ben gestiti, la cultura locale viene tramandata e non va persa. La cucina non è solo cucina, è anche cultura. Poi con il nostro lavoro diamo visibilità all’intera zona, valorizzandone l’artigianato e creando indotto. L’abbiamo fatta diventare una destinazione, una meta.
Nessuno ha mai pensato prima di lei a Cook the Mountain, a Care’s, il primo congresso che si interroga sugli orizzonti etici di un cuoco. E’ un’unicità replicabile secondo Lei?
Certamente, lo è. Lo abbiamo dimostrato con Care’s Salina, fatta durante il periodo estivo. Io non vado a predicare, faccio vedere quello che si può fare. Si comincia dalla propria casa. Se ci uniamo, io ci sono, sempre pronto a divulgare dei concetti che mi sono propri nel profondo. Ora si dedicherà anche alle cucine del rifugio Alpinn a 2.250 metri sulla cima del Plan de Corones, non lontano dal St. Hubertus. Sta andando verso un’altra strada possibile, una sorta di Cook the Mountain al quadrato? Proprio così. È il nostro nuovo progetto, ampio: un museo della fotografia di montagna, una sala congressi e il rifugio, il vecchio rifugio del primo impianto di Brunico. Per me, sciatore che ha spesso vissuto i comprensori sciistici, è creare qualcosa che gli sportivi non hanno mai avuto! Con una vista che spazia da Lienz alla Valle Aurina, dove sono nato.
Come ha progettato Alpinn?
Il design del ristorante è curato dall’altoatesino Martin Gamper, un punto di riferimento assoluto per la progettazione sostenibile. Qui porteremo il progetto Cook the Mountain in stile bistrò con prezzi in linea. Dato che il rifugio è aperto solo a pranzo e il St. Hubertus solo a cena, proseguiamo nel nostro progetto con i nostri contadini, i nostri fornitori, la stessa filosofia della sostenibilità. E qui avremo ancora qualcosa in più da raccontare ai nostri clienti: il lavoro di tutti gli artigiani che hanno costruito quest’unicità. Parleremo del falegname, del fabbro, da dove viene il pavimento e chi l’ha realizzato, lo stesso per i soffitti in stoffa. Li conosciamo, sappiamo come lavorano, con i nostri stessi principi. E qui potremo, con la mia giovane brigata, spiegare ancora di più alla gente il concetto di sostenibilità.
Il mercato alla fine chi premia secondo lei e perché?
Premia chi ha le idee chiare, è coerente con se stesso sia nella vita sia nel lavoro. E resta al pass. Io non mi muovo mai dal mio ristorante per andare in tv o fare show. Mi trovate sempre qui. Da me c’è il divieto di buttare ciò che ritorna dalla sala: voglio vedere cosa torna indietro per capire: mi interrogo e interrogo il mio staff. E non voglio yes man, voglio gente che parla e si confronta con me. C’è sempre da migliorare, anche a 57 anni e con tre stelle: il mio lavoro è essere un cuoco.