C’è un nuovo protagonista nel mondo degli spirits o meglio delle bevande alcoliche e arriva dal Giappone. La crescita è iniziata con Expo 2015. La sfida nella ristorazione è innanzitutto culturale: non è un fine pasto ma un prodotto da abbinamento
Quando Richard Geoffroy, dopo 28 anni da chef de cave in Dom Pérignon, ha annunciato lo scorso autunno che avrebbe lasciato l’incarico per dedicarsi al sake, molti hanno pensato che qualcosa di veramente nuovo stesse accadendo nel mondo degli spirits. Qualche giorno prima, Feudi di San Gregorio aveva raggiunto un accordo commerciale con la giapponese Fukumitsuya per la distribuzione in Italia di una selezione dei migliori sake prodotti dall’azienda fondata nel 1625. Due conferme, nel giro di qualche settimana, per la bevanda alcolica ricavata dalla fermentazione del riso, a cui vengono aggiunti acqua, kōji (una muffa) e del lievito (kobo): in Giappone il sake esiste da duemila anni, in Europa ha cominciato ad essere presente vent’anni fa, ma solo negli ultimi tre anni è diventata veramente trendy, da quando si è cominciato a lavorare culturalmente sul prodotto affrancando il sake da fuorvianti luoghi comuni.

LUOGHI COMUNI
Stefania Viti, giornalista esperta di Giappone e autrice de “Il libro del sake e degli spiriti giapponesi” (editore Gribaudo), racconta il primo dei luoghi comuni contro cui il prodotto ha dovuto lottare: “Quello che il sake sia un digestivo simile alla grappa, da bere caldo a fine pasto, come molti italiani ancora credono”. Lorenzo Ferraboschi, titolare di Sake Company (azienda di distribuzione di sake) e di Sakeya (bar, ristorante e shop dedicato al sake) nonché responsabile italiano della Sake Sommelier Association (SSA), aggiunge il secondo: “Non è un distillato. Il fatto che sia trasparente, che sia servito in bicchierini che richiamano l’idea dello shottino, il fatto che anni fa in alcuni ristoranti davano davvero un distillato e non un sake ai clienti a fine pasto, ha deviato la percezione comune”. Il terzo luogo comune viene introdotto da Matteo Zappile, head Sommelier del ristorante Il Pagliaccio di Roma (chef Antony Genovese): il sake si beve pasteggiando, non alla fine. “Come fanno i giapponesi, che lo bevono a tutto pasto, anche noi – prosegue Zappile, che è anche Sake Sommelier – lo stiamo proponendo ai nostri clienti in abbinamento alla nostra cucina, che essendo molto complessa ben si sposa alla versatilità del sake. Lo usiamo da 4 anni, abbiamo anche una carta dei sake e vediamo sempre un maggior interesse da parte della clientela. Certamente occorre accompagnare le persone alla conoscenza del prodotto, in Italia siamo ancora molto indietro”. In effetti per far passare il concetto che il sake venga bevuto pasteggiando, accompagnando la cucina, per gli italiani e per i francesi, cresciuti con il vino sulla tavola, richiede una certa elasticità, una voglia di libertà per sperimentare nuove bevande. “Dovremmo vedere il sake – ribadisce Viti – non come antagonista ma come una variante, un elemento complementare, senza accentuarne le diversità, ma i suoi pregi e caratteristiche che possono abbinarsi alla nostra gastronomia. Poi: vino e sake, sebbene il metodo di produzione sia diverso, sono entrambi due fermentati da pasteggio. C’è una notevole differenza dal punto di vista del gusto perché mentre il vino tende a diventare protagonista in bocca, una delle funzioni principali che ha il sake è quella di esaltare e accompagnare il gusto del cibo”. E aggiunge Ferraboschi: “Il sake non si beve solo caldo, va servito alla stessa temperatura del piatto: piatto freddo, sake freddo, piatto caldo, sake caldo. Un altro luogo comune è che il sake economico sia necessariamente da evitare. Ragioniamo come nel vino. Il sake premium non è il meglio in assoluto. In Francia e in Inghilterra, che fanno tanto fatturato di sake, comprano sostanzialmente i sake aromatici, i più costosi. Invece tutto dipende dall’abbinamento con il piatto. Con il cibo grasso, ricco, ma anche con una fiorentina, gli aromatici non si sposano bene, quando invece sono perfetti per i cibi poco speziati e delicati, per le crudité. Se la sbramatura del chicco è media e non così alta come negli aromatici, il sake è più grezzo, più forte, più “peperino”, più giusto per i piatti intensi. E quindi va bene un sake anche più economico”. Uniontrade, società milanese di distribuzione all’ingrosso di alimenti etnici, è stata la prima a importare il sake in Italia. “Siamo partiti con una qualità medio-bassa, destinata ai gestori cinesi di ristoranti giapponesi”, precisa Federico Peruzzi, responsabile marketing. “Non siamo specializzati sul sake, è un completamento di gamma. Distribuiamo Gekkeikan (il più grosso produttore del Giappone, ndr), Nanbubijin, Kozaemon. In questi ultimi tempi stiamo cercando di puntare ad una qualità di sake superiore in formati ridotti poiché all’origine si vendeva soprattutto il contenitore da 18 litri”.

PRIMA E DOPO EXPO
La svolta nel mercato, a detta di tutti, è giunta con Expo 2015. I giapponesi hanno investito moltissimo sull’evento di Milano, con una scenografia all’ingresso del padiglione nazionale fatta di barili di sake. E quello giapponese è stato il secondo padiglione più visitato durante l’esposizione. Il sake è un loro patrimonio e han ben pensato di spingere molto sulla loro bevanda. Unitamente al fatto che gli italiani amano il cibo giapponese, hanno stimolato un’impennata di curiosità nei confronti del sake. Un anno prima di Expo, Giovanni Baldini, titolare di Firenze Sake, lanciava la sua attività di importatore. “Ho iniziato nel 2014, dopo anni di ricerca, a trattare i prodotti di 6 cantine tradizionali, dopo una selezione su 39 aziende. Ho cominciato in salita, nella patria del vino toscano, con poca curiosità verso il sake, per poi espandermi a Milano dove il sake va bene anche nei ristoranti fusion, per poi proseguire su Torino e Roma, che potrebbe essere il maggior mercato del futuro. Attualmente lo sviluppo prevalente è al Centro Nord”. Nel frattempo, Baldini ha lavorato sulla cultura e sulla divulgazione del prodotto, organizzando eventi e formando persone attraverso il diploma della WSET Award in Sake. E il fatto che un’organizzazione come la Wine & Spirit Education Trust,molto nota nella formazione di esperti del vino, abbia dedicato una branchia specifica al sake, non è affatto da trascurare. “Stiamo parlando di una cultura e di una tradizione ancor prima che di una bevanda – precisa Baldini – e occorre tenerne conto in una prospettiva storica. Trattandosi di veicolare un sistema complesso, sono necessari tempi lunghi ed un’alta consapevolezza e competenza. Comunque nel 2017 ho raddoppiato il fatturato rispetto al 2016”. Intanto, a livello di consumi, l’Italia è decollata. “Dall’ottobre 2018 – afferma Ferraboschi – è al primo posto in Europa come volumi. Abbiamo superato l’Inghilterra e pochi sono consapevoli di questo traguardo”. Marco Massarotto, fondatore e presidente dell’associazione La Via del Sake, concorda sui risultati raggiunti ma specifica che il livello dei prezzi applicati in Italia è decisamente inferiore rispetto a quelli vigenti in Gran Bretagna. E Baldini precisa: “In valore, l’Italia in Europa è quinta, dopo Inghilterra, Francia, Germania e Olanda”.

BIG SCETTICI
C’è però una grande difficoltà a reperire dati precisi poiché molti Paesi svolgono una funzione di hub verso altre destinazioni europee. Per fare qualche esempio italiano, Velier compra il sake in Olanda e Compagnia dei Caraibi lo acquista dalla Francia. In Giappone esistono 1.200 cantine di sake (sakagura), ognuna con delle tipologie che variano dalle 13 alle 30. E noi in Italia arriviamo ad avere appena un centinaio di referenze. Certamente è un mercato di nicchia, però capite bene che spazio di crescita ce n’è ancora molto. Diageo, gruppo leader mondiale degli spirits, al momento non ha in portafoglio un vero e proprio sake, anche se la società inglese si è avvicinata al mondo Japan con Jinzu, definito unn gin-sake ibrido. Franco Gasparri, brand ambassador per l’Italia del gruppo, è abbastanza scettico sulle possibilità di crescita dello spirito giapponese. “Credo che nel Belpaese il sake abbia poco appeal e sia ancora poco capito dagli italiani. Dovremmo anche posizionarci meglio, ci manca la fascia di alto livello. Noi per avvicinarci al mondo orientale abbiamo messo a punto il Jinzu, un english gin con twist orientale, nel quale usiamo anche del sake, poi ginepro, fiori di ciliegio e lime. Sta riscuotendo un certo successo ma se dovessimo parlare di una vera e propria tendenza italiana dovremmo evidenziare il ritorno della moda del whisky, anche nei cocktail”. Un altro limite, evidenziato da Baldini, è quello dei costi d’importazione. “Incidono tantissimo, soprattutto per la mia società che importa per via aerea e non per nave, al motto di ‛Vi faccio bere il sake come lo berreste in Giappone, solo che potrete stare comodi a casa vostra o in questo ristorante’: si arriva a un’incidenza di circa il 75% del prezzo. Ma ho puntato alla qualità massima con prodotti di alto livello e credo che alla lunga questo tipo di approccio ripagherà”. Ferraboschi, che ha iniziato a importare nel 2015 e si è piazzato al primo posto come fatturato tra gli importatori specializzati, con una percentuale di vendite aumentata del 38% nel 2018, tratta aziende che sono il fiore all’occhiello del Giappone. Si tratta di Kenbishi, il produttore più anticpo del Giappone e che risale al 1505; Masumi, prima azienda a scoprire il lievito N°7 nel 1946, dal quale derivano i sake aromatici; Shimazaki che invecchia i sake in grotta (in tutto il Giappone sono solamente tre che utilizzano le grotte, nda) e Sogen, che li invecchia all’interno di un tunnel in una collina. Tra i principali importatori in Italia compaiono JFC, colosso giapponese del cibo nipponico, e Uniontrade, legata all’asian food. A seguire, tra gli specializzati, Sake Company è di gran lunga il più importante, e poi Milano Sake e Firenze Sake. La sfida, per queste società, sarà soprattutto quella di imporre la cultura del sake. “Lo si fa studiandolo, conoscendolo e sapendolo presentare nel modo giusto, dalle temperature di degustazione alle tipologie e al food pairing”, commenta Stefania Viti. “La mancanza di conoscenze di base è senza dubbio l’ostacolo più grande ed è per questo che la formazione di personale specializzato è fondamentale, ed è un bene che anche in Italia da qualche anno ci siano corsi per diventare sake sommelier. Dal punto di vista commerciale lo sviluppo di una rete di distribuzione è sempre più necessaria affinché il prodotto possa arrivare in modo capillare sul territorio”.

EVENTI CRUCIALI
Una spinta potrebbe arrivare dagli eventi legati al sake. Massarotto dal 2014 organizza il Sake Festival, diventato dal 2018 Japan Festival e dedicato al Giappone nella sua complessità. “Il primo Milano Sake Festival ha avuto 300 partecipanti… il primo Japan Festival ha raccolto 18mila presenze! Io penso che la sfida sia portare il sake a contatto con il grande pubblico e lasciare il momento di confronto tecnico per altre occasioni, come quella che si svolge al Vinitaly ormai da due anni con un’area dedicata e il concorso 5 Star Wines che dal 2017 prevede anche la partecipazione del sake”. Il 2019 sarà un anno positivo per il sake, dicono tutti. Intanto Ferraboschi ci anticipa che a novembre 2019 ci sarà per la prima volta un concorso specifico per il sake, il Milano Sake Challenge. “E aumentano le iscrizioni alla Sake Sommelier Association – continua Ferraboschi – dal febbraio 2016 abbiamo formato circa 280 sommelier”. Stanno aumentando anche le enoteche e i ristoranti non giapponesi che hanno sake in carta. E nel bartending, di solito così veloci e pronti a cogliere le nuove tendenze? “Si usano di più i liquori giapponesi ma anche il sake – spiega Viti – anche se il sake è molto delicato e ci vuole molta esperienza e conoscenza del prodotto per farlo emergere in un cocktail senza coprirlo o rovinarne il sapore”.
