Nelle sue diverse varianti, il piatto italiano più diffuso nel mondo ha scoperto la qualità totale, a partire dalla lievitazione e dagli ingredienti selezionati. E intanto spopolano le catene e Milano sta facendo scuola Nella classifica dei piatti più apprezzati nel mondo, secondo la Cnn, occupa la seconda posizione dietro il Massaman curry. Secondo un’altra classifica, quella dei cibi più mangiati in assoluto, è preceduta soltanto dal riso. E rappresenta una vera e propria fissazione per gli statunitensi, che ne mangiano mediamente 13 kg a testa contro gli 8 kg del consumo italiano. Parliamo della pizza, un piatto ormai così internazionale che molti, a cominciare dagli americani, pensano di esserne loro i veri inventori. Invece l’invenzione degli Usa, in quest’ambito, è stata quella della replicabilità commerciale, realizzata tramite catene come Pizza Hut del gruppo Yum! (che comprende anche i brand Kfc e Taco Bell), con circa 17 mila stores a livello globale, e Domino’s Pizza, che ne ha oltre 15mila ed è entrata anche nel mercato italiano. Così gli italiani, per anni, sono rimasti a guardare, magari lamentandosi del furto di un proprio orgoglio nazionale e inorridendo di fronte alle varianti nordiche e d’oltreoceano come la pizza all’ananas o la Oreo pizza in chiave dessert. Dopo tanta lamentela, è infine arrivato il momento di agire e la risposta italiana, l’unica possibile, è stata quella della qualità.
FORMAT DI SUCCESSO
Oggi a Milano, Bologna, Verona, Torino e in altre città del nord, la pizza spopola ed è diventata un terreno di sperimentazione anche per catene in grado di attrarre le attenzioni degli investitori. È il caso di Briscola Pizza Society, acquisita nell’estate del 2017 da Francesco Trapani, o di Berberè, posseduta in quota minoritaria dal leader italiano dei prodotti da agricoltura biologica Alce Nero. I gruppi leader della ristorazione non sono rimasti a guardare e se Autogrill è da tempo inserito in quest’ambito con Spizzico, Chef Express sta progettando un rafforzamento dopo aver già investito nel format Pizza & Vizi e intanto Cigierre si è assicurata due anni fa la catena Pizzikotto, che nel 2017 ha incassato oltre 20 milioni di euro con una presenza perlopiù localizzata in Emilia Romagna. Il trend è sempre più focalizzato sulla qualità del prodotto e sulla ricerca: se negli anni peggiori spopolavano le pizzerie da asporto che utilizzavano basi surgelate per realizzare un prodotto finito di ardua digestione, oggi troviamo ampia scelta di impasti, ingredienti dop e igp, carte dei vini e carte delle birre artigianali per completare una vera e propria experience degustativa. “Questo trend si sta evidenziando in tutta Italia perché la pizza è diventato il lusso accessibile”, racconta Luciano Pignataro, giornalista e critico gastronomico, ideatore con Barbara Guerra e Albert Sapere (curatori del congresso internazionale Le Strade della Mozzarella) della guida online 50 Top Pizza che nelle prime due edizioni ha visto il trionfo di Pepe in Grani quale miglior pizzeria italiana. “Sempre più le famiglie vanno in pizzeria – continua Pignataro – e sempre più vogliono fare una buona digestione oltre che provare cose buone. L’aspetto negativo di questo trend è che tutto è stato concentrato sull’impasto. E sono pochi i pizzaioli che ragionano in base al menu. Sicuramente il futuro è quello del mondo vegetale, quindi prevediamo l’utilizzo sempre più ampio di verdure”. Quanto ai centri della pizza, Pignataro osserva: “La città più in fermento è Milano, ma il grande laboratorio creativo resta la Campania con Napoli e Caserta in testa. Le tendenze del momento riguardano in negativo un eccesso di latticini e di formaggi, in positivo un miglioramento costante delle materie prime. Crediamo che si stia per aprire la stagione della pizza in pala che già aveva fatto capolino una trentina d’anni fa e che adesso si presenta riqualificata”. Quanto al futuro, l’inventore di 50 Top Pizza scommette sui locali dei piccoli centri: “Sapranno fare un discorso coerente nel piatto giocando su salute e biodiversità”.
INGREDIENTI DOP
A far la differenza è lo scontrino medio. Lo stesso prodotto, prendiamo la classica Margherita, che nelle città del nord veniva messo i carta a 5-6 euro con i classici ingredienti anonimi e non sempre di qualità accettabile, oggi sale a 10 euro e a volte oltre se il pomodoro utilizzato è quello del Piennolo dop coltivato alle pendici del Vesuvio, se la mozzarella è da agricoltura biologica con tanto del nome di produttore in evidenza, quando serve per valorizzarne la qualità o l’etica del prodotto (è il caso di Gino Sorbillo, che vanta una collaborazione consolidata con la cooperativa sociale di Libera Terra intitolata alla memoria di Don Peppe Diana). E poi c’è tutto il lavoro sulla lievitazione, con ricorso a lievito madre o lunghe lievitazioni che rendono l’impasto leggero e digeribile, e sulla selezione delle farine, a beneficio dei mulini che fanno ricerca. “Il canale pizzeria oggi vale un buon 50% del nostro fatturato”, sostiene Piero Gabrielli, direttore marketing di Petra – Molino Quaglia, realtà specializzata nella produzione di farine naturali e macinate a pietra. Tra i loro clienti compaiono nomi di gruppi come Marghe, Briscola, Pizzium e Lievità. “Il trend è chiaramente qualitativo e questo vale sia per la pizzeria gourmet, dove domina la creatività, sia per quella tradizionale che sta sempre più elevando il livello. Di contro, sembra incredibile ma i pizzaioli comunicano poco sulla scelta delle farine, e si tratta certamente dell’alimento più utilizzato nella loro attività”. Nel 2018 la società con sede a Vighizzolo D’Este (Padova) ha incassato 44 milioni di euro, con un incremento di oltre il 10% rispetto al 2017.
LA MOSSA DEL LEADER
Il numero uno per fatturato è Rossopomodoro, brand del gruppo Sebeto, presieduto da Franco Manna e controllato dal fondo Op Capita, che dopo l’acquisizione ha affidato a Marco Airoldi, ex amministratore delegato di Benetton, il ruolo di vice presidente e a Roberto Colombo, ex COO di Autogrill, quello di CEO. Nel 2018 Rossopomodoro è cresciuto del 15% partendo da una base superiore agli 80 milioni, su un totale di oltre 140 milioni dell’intero gruppo Sebeto. La crescita like for like è stata del 3 percento. E il piano di sviluppo è focalizzato sul nuovo concept ‘Rossopomodoro come un giorno a Napoli’, testato lo scorso anno a partire da Milano con risultati superiori alla media del marchio. “Arriveremo a 20-25 inaugurazioni del concept entro giugno – afferma il CEO – e tutte le nuove aperture saranno effettuate con questo layout”. Perché cambiare formula? Colombo la considera un’azione necessaria per poter crescere in un contesto competitivo ma che presenta al tempo stesso importanti margini di sviluppo. “Il mondo della pizza napoletana – ci spiega – si sta affacciando ora, in chiave qualitativa, al di fuori di Napoli e della Campania. Rossopomodoro in questo segmento è un marchio storico ed è leader. E quando c’è fermento il leader, se tale vuole restare, deve rispondere con un salto di qualità, innovando. È quanto stiamo cercando di fare”. L’obiettivo però non è né l’estero, né la replicabilità attraverso il franchising. “Ci concentreremo in Italia e sposteremo il mix verso la gestione diretta. I franchising sono stati determinanti per la nostra crescita e diffusione, ma pensiamo sia giusto aumentare la parte controllata a livello centrale. Non vogliamo arrivare ai numeri di Domino o di altri big stranieri perché ciò significherebbe snaturare l’identità di Rossopomodoro, fondata sull’artigianalità”.
SPAZIO ALLE ACADEMY
L’ascesa dei brand della pizza passa necessariamente per nuove aperture, poiché a parità di locali c’è poco margine di sviluppo, e Berberè si conferma tra i più dinamici. Fondata nel 2010 in un centro commerciale in provincia di Bologna, la società dei fratelli Matteo e Salvatore Aloe è cresciuta in Italia e ha messo un piede anche all’estero, nella città di Londra. E i risultati si vedono nel conto economico: dopo aver chiuso il 2017 a 5 milioni di ricavi, la stima per l’esercizio appena concluso è di un +45% di incassi nei nove locali gestiti. Intanto si appresta a inaugurare la terza pizzeria a Milano in zona Stazione Centrale, in aggiunta a quelle già avviate tra Isola e Navigli, e nelle previsioni dei fratelli Aloe ci sarebbe la seconda apertura a Torino in attesa di rafforzare la presenza su Roma. “Il 2019 – spiega Salvatore Aloe – sarà l’anno dell’apertura della nostra Academy. Inoltre arriveremo al 100% di prodotto bio, a fine 2018 eravamo già oltre l’80% e non avevamo accelerato solo perché risulta ancora difficile inserire in carta delle birre biologiche all’altezza”. Per quanto riguarda l’estero, c’è margine di potenziamento a Londra, dove all’inizio la clientela di Berberè era perlopiù italiana mentre ora la fama si diffonde e arrivano anche gli inglesi. E se la crescita tende a essere limitata, nella ristorazione, da un turnover elevatissimo, l’immagine vincente di un brand e il suo sviluppo rappresentano uno strumento di fidelizzazione basato sulle possibilità di carriera. “Per questo – sottolinea Aloe – tendiamo a rafforzarci laddove siamo già presenti, perché il secondo pizzaiolo diventerà poi il primo della nuova sede. E per questo, considerando le maggiori difficoltà nel reclutare personale di sala, che dobbiamo investire in formazione. La professionalità e l’organizzazione sono alla base di modelli che vanno oltre lo schema della ristorazione familiare, dove dominavano passione e senso di appartenenza, elementi importanti ma non più sufficienti. E quando c’è professionalità, spesso c’è anche capacità di attrazione verso investitori e private equity”.