“Non siamo un sushi bar”. Il nome scherzoso del locale, in inglese, caratterizza la prima catena di sushi delivery d’Italia che ha portato a sei i suoi punti vendita, tutti a Milano, si prepara ad aprire il settimo nell’hinterland e per il 2019 ha in programma le prime inaugurazioni al di fuori della Lombardia. Matteo e Tommaso Pittarello hanno strizzato l’occhiolino alla moda del sushi oltre una decina d’anni fa, cavalcando l’onda: un “unconventional sushi”, come amano definirlo, che a fine anno supererà quota 1,5 milioni di euro. “Il settimo locale sarà nell’hinterland milanese ma l’obiettivo per il 2019 è l’espansione in altre regioni del centro-nord. Per il momento vogliamo rimanere in Italia” racconta Matteo Pittarello, “a meno di non concludere qualche trattativa con qualche fondo internazionale”.
A Milano i locali di This is not a sushi bar si trovano in via Nino Bixio e via Casati (Porta Venezia), viale Pasubio (Porta Garibaldi), via Sanzio (zona Pagano), via Conca del Naviglio (Navigli) e Via Papi (Porta Romana). Quello che incassa di più è via Casati, con ricavi per 500mila euro, mentre l’ultimo aperto, in via Papi a ottobre, dovrebbe arrivare a pieno regime a due milioni l’anno. Il punto di forza della catena, organizzata come franchising, è il delivery, gestito in modo centralizzato attraverso un software sviluppato internamente e, come tengono a sottolineare fratelli Pittarello, “con la scelta di assumere i consegnatori con stipendi commisurati all’importanza del loro lavoro, in modo che la consegna a domicilio non diventi una piaga sociale”.
This is not a sushi Bar è salito recentemente agli onori della cronaca per essere il primo franchising dichiarato in Italia ad accettare il pagamento del conto con like e followers: una nuova strategia di marketing a prezzo di costo delle materie prime. “Il target dell’offerta – sottolinea Pittarello – sono soprattutto i piccoli e medi influencer, per ottenere pubblicità e visibilità attraverso i social network e attirare i clienti nel locale con un sistema che è un mix tra un incentivo economico e un gioco. Con Instagram abbiamo investito 3mila euro in sponsorizzazioni, oltre al costo dei piatti offerti agli instagrammer, ma il risultato è stato entusiasmante: i primi cento ci hanno fatto ottenere visualizzazioni per più di 4milioni di utenti con un costo dell’operazione circa 400 euro in sushi. A un mese dall’operazione possiamo contare su più di tremila pubblicazioni nel mondo in più di 70 Paesi, più di 1 miliardo di visualizzazioni dei vari video prodotti in cinese, giapponese, coreano, indiano, olandese, inglese, russo e arabo, per cui sei gruppi internazionali si sono interessati al nostro brand, avviando diverse trattative di collaborazione”.
This is not a sushi bar ha chiuso il bilancio 2017 con 1,4 milioni di fatturato di gruppo e prevede una crescita tra il 15 e il 20%, espandendo anche la base proprietaria: nel corso degli anni, agli storici tre fondatori si sono aggiunti altri otto nuovi soci tra i quali Fabio Ionà, fotografo che opera nel settore dello spettacolo. Sono 35 i dipendenti della catena tra full time, part time, lavoratori a chiamata e consulenti.
Tartare e uramaki sono i prodotti a maggior marginalità e i più richiesti (in particolare la tartare di salmone e avocado, gli uramaki di salmone premium, il crispy salmon wrap e i nigiri sake). Pittarello racconta: “Ci sono prodotti con bassa marginalità che devono essere sempre presenti in carta. Avevamo un prodotto che ha venduto in un anno solo 4 pezzi e quindi lo abbiamo tolto dalla carta, appena i clienti se ne sono accorti lo hanno richiesto. Questo perchè vi sono prodotti che definiamo di “ancoraggio” percepiti come garanzia di qualità che i clienti, che assolutamente non possiamo togliere”. I signature più ordinati negli ultimi mesi sono anche gli ultimi messi in carta: Giulia dai sapori mediterranei, Valentino alla marmellata di ciliegie, il broadway alla mela e gamberi, il salmone premium. Presto arriverà un menu intero dedicato alle tartare, che comportano pochi costi di lavorazione e grande marginalità. Solo il 35% del fatturato è realizzato a pranzo ma per circa la metà degli ordini. Quelli di via Casati e Via Conca del Naviglio sono i ristoranti dove la cucina è più spaziosa e fungono da mini hub per alcune lavorazioni centralizzate, quindi una componente maggiore del fatturato è implicitamente dovuta al fatto che vendono infragruppo del prodotto semilavorato agli altri punti vendita.