Qualche anno fa sarebbe stato impensabile, e per qualcuno perfino inaccettabile, andare al ristorante stellato e non trovare lo chef in cucina. Oggi, l’esser fuori sede è diventato un fatto piuttosto normale, se parliamo di cuochi presenti nel mercato con più brand e in più continenti come Niko Romito, Chicco Cerea, Heinz Beck e altri ancora, esattamente come lo è da tempo in Francia per Alain Ducasse e lo era per Joël Robuchon.
Sta avvenendo anche in Italia. La globalizzazione degli chef italiani è una diretta conseguenza del prestigio acquisito dalla nostra cucina, culminato nella doppia affermazione di Massimo Bottura in vetta alla classifica mondiale della ristorazione. La voglia di made in Italy si è trasferita dalla moda e dal design fino alla ristorazione, fondata sempre più sulla qualità delle materie prime e con l’aggiunta dell’Italian touch del cuoco, le cui ricette diventano paragonabili a it-bag destinate a durare nel tempo. Gualtiero Marchesi, da cui tutto è nato, non ha avuto l’intuizione o forse la possibilità di creare le condizioni affinché il suo marchio potesse affermarsi a livello internazionale e i suoi allievi potessero continuare a realizzare, a nome suo, classici quali il dripping di pesce o il risotto oro e zafferano. La generazione attuale dei cuochi ha affrontato questa sfida con formule diverse, ma tutte protese a rafforzare il proprio brand, trasformandolo in una firma del settore per assicurare una continuità anche quando i fondatori si saranno ritirati.
Insomma, la ristorazione sta replicando anche un’altra formula vincente del lusso: la creazione e valorizzazione dell’heritage. Nell’ambito degli stellati, lo dimostrano gli esempi riportati in questo numero a cominciare da quello di Enrico Bartolini, protagonista di una crescita rapida e rilevante. Da qui inizia la sfida per garantire al brand un futuro a lungo termine, impresa possibile solo ai migliori, non solo in ambito creativo, bensì gestionale e formativo.
David Pambianco