La nuova ristorazione fatta dai cinesi a Milano? più qualità, ritorno alla tradizione, regionalizzazione. Nascono nuovi format, ma per la replicabilità è ancora presto. Una comunità dinamica e impaziente.
Giovane, ambizioso, tendenzialmente di seconda generazione. Punta su nuove formule ma non è ancora pronto (o almeno non del tutto) a trasformarle in format replicabili. Soprattutto, vuole uscire dai cliché del passato, da quei fitti menù che iniziavano con l’involtino primavera per concludersi con il gelato fritto, interpretando invece la vera cucina cinese, la più ricca al mondo se considerata nella sua complessità territoriale. La chiave di lettura è differenziare, principalmente su base regionale, per riappropriarsi della tradizione e diventarne il portabandiera, superando anche la concorrenza dei format europei di ispirazione asiatica. Ecco l’identikit dell’imprenditore cinese della ristorazione, nel 2018, per come si sta manifestando sulla piazza di Milano.
EVOLUZIONE NO FUSION
Gelato fritto? “In Cina non esiste”. Pollo al limone? “Da noi i limoni non crescono”. Francesco Wu si diverte a demolire i luoghi comuni sulla cucina del suo Paese per come l’abbiamo conosciuta in Italia a partire dagli anni Ottanta. “Era la fase 1.0, cucina cantonese rivisitata per attrarre il gusto occidentale. Ma non era la nostra cucina”. Wu è un perfetto rappresentante di questa nuova generazione, primo imprenditore cinese a ottenere la copertina di un settimanale d’attualità (Espresso), membro del consiglio direttivo di Confcommercio Milano, Monza e Lodi con delega all’imprenditoria di origine straniera. Dopo essersi imposto a Legnano con un ristorante pizzeria di cucina italiana (Al Borgo Antico), ha raddoppiato l’attività aprendo a Milano un locale, Ramen a Mano, per far gustare ai cinesi – facendolo scoprire anche agli italiani – il vero ramen secondo la ricetta tradizionale. “Non facciamo solo ristorazione, siamo anche portabandiera di una cultura gastronomica”, racconta Wu, riassumendo la storia della ristorazione cinese in Italia in 4 fasi. Dopo la prima, quella del cantonese rivisitato, è arrivato il sushi sino-giapponese, per poi svoltare su target qualitativi finalmente elevati fino ad arrivare al cinese 4.0 di oggi: cucina tradizionale, autentica, di qualità, con ricette cinesi e ingredienti italiani. E la quinta fase quale sarà? Si parla di replicabilità, ma Wu non è convinto. “Replicare è operazione tutt’altro che banale, soprattutto se portata fuori Milano. Più che sul format replicabile, il futuro della ristorazione fatta da cinesi lo vedo “integralista” e non fusion, senza più concessioni alla contaminazione, con personale formato in Cina e con materie prime importate dalla Cina. Una formula veramente e totalmente cinese di alto livello”. Un po’ come oggi accade, all’estero, per i ristoranti italiani di fascia alta, magari proprio quei ristoranti che avevano iniziato l’attività servendo spaghetti with meatballs esattamente come i cinesi hanno iniziato con il riso alla cantonese arricchito col prosciutto cotto, altro ingrediente estraneo alla loro tradizione.
DIFFERENZE IN FAMIGLIA
Il suo Iyo è stato il primo stellato Michelin cinese d’Italia, ma cinese non è. Claudio Liu, il proprietario, lo definisce un ristorante di ‘cucina giapponese contaminata’. “Utilizziamo ingredienti e tecniche italiane miscelate a tecniche giapponesi tradizionali”, racconta l’imprenditore. Nel 2006, con il fratello Marco e la sorella Giulia, si stacca dai genitori, immigrati di prima generazione, per seguire una linea diversa, in anni difficili per la ristorazione cinese: sono gli anni post Sars, quelli in cui occorreva ‘camuffare’ da italiana o giapponese una cucina che aveva perso ormai ogni credibilità a livello igienico-sanitario. Dopo aver lanciato il bar Asian Mood in via Ravizza, oggi gestito dal fratello, Claudio a 23 anni rileva un locale prossimo al fallimento e lo trasforma in Iyo, con l’obiettivo di portare a Milano una formula Asian che all’epoca non esisteva: cucina a vista su strada e ingresso, connubio tra chef giapponese e italiano, alto livello, innovazione. “Volevamo staccarci dal concetto di ristorante asiatico che sacrifica la qualità per fare incasso. Così abbiamo investito, raddoppiando la superficie del locale e limitando la crescita dei coperti da 54 a 80, proprio per offrire più comfort e qualità del servizio. Lo abbiamo fatto al momento giusto”. Oggi Iyo ha una waiting list di circa un mese nei weekend e lavora per il 70% con clientela fissa italiana. Nel frattempo la sorella Giulia Liu non è rimasta a guardare e ha avviato a sua volta Gong, a due passi da piazza Tricolore, altro locale simbolo del rinnovamento con una cucina asiatica fusion. Anche in questo caso, l’apertura arriva al momento giusto; 3 marzo 2015, due mesi prima dell’inizio dell’Expo, quando Milano si trasforma in capitale mondiale del food. “Gong – racconta Giulia Lin – nasce come scambio di culture: i limiti cinesi, individuabili per esempio nella classicità delle tecniche di cottura, sono compensati attraverso la capacità occidentale di innovare e la cultura italiana dello stare a tavola. In più l’abbiamo fatto a Milano, e se va bene qui può andar bene ovunque nel mondo”. Base asiatica, metodo europeo. Risultati? “Siamo contentissimi – risponde – ma non mi sognerei mai di aprire un Gong 2 a Milano, perché è difficile standardizzare la qualità e anche perché in città c’è già tanta offerta. Magari qualche pensiero lo stiamo facendo per l’estero, sarebbe bello a Londra”. Pur separati, i tre fratelli Lin si considerano un gruppo unico e Giulia sottolinea l’aspetto unitario, evidenziandone peraltro la logica. “Abbiamo aperto tre locali profondamente diversi proprio perché non avrebbe avuto senso farsi concorrenza in famiglia; tanto meno a Milano, dove la clientela che frequenta certi ristoranti, alla fine, è sempre la stessa”. E nel frattempo Claudio si prepara a una quarta iniziativa, senza per ora rivelarne i contenuti. “Dovremmo aprire entro l’anno. Si tratta di un nuovo format, nel quale avrò come soci due ex collaboratori di Iyo, un cuoco e un responsabile di sala”. L’idea del futuro della ristorazione cinese per Claudio è ben delineata. “La nostra offerta regionale è potenzialmente infinita e la seconda generazione vuole trasmettere queste conoscenze al pubblico italiano. Ma posso assicurare che il mio nuovo format non sarà di cucina regionale e non sarà nemmeno di cucina cinese”.
FORMAT O NO?
Se parliamo di street food cinese, il pensiero va immediatamente alla Ravioleria di via Sarpi, frutto della collaborazione tra Hujian Zhou e il suo “vicino” di casa, la storica macelleria Sirtori che fornisce il ripieno per i ravioli preparati a vista nella chinatown milanese dove è stato poi aperto anche un format per l’involtino di qualità. Ravioleria è stata quindi esportata a Firenze, nel Mercato Centrale, e chissà di quanti altri punti di vendita potrebbe disporre se solo Hujian, detto Agie, volesse spingere… “Credo che la Ravioleria interessi molto agli investitori, ho anche ricevuto delle proposte, ma non voglio trasformarla in una catena di franchising. Non vorrei perdere la qualità che abbiamo cercato di mantenere fin dal giorno di apertura”, racconta. Nel frattempo, all’inizio di viale Monza, Agie ha aperto una nuova trattoria, Le Nove Scodelle, così chiamato perché offre solo 9 portate tipiche della provincia cinese del Sichuan. “Si tratta di una cucina regionale, specifica e di carattere. La svolta consiste proprio nel non voler più assecondare i gusti di tutti: se non ti piace quel che faccio, ci sono altri mille ristoranti dove puoi andare. La cultura gastronomica cinese è una miniera d’oro a cui attingere. Inoltre, la concorrenza non è mai mancata nella ristorazione ed è importante sapersi distinguere”. Tra coloro che hanno invece scelto la replicabilità c’è Wang Jao, format di proprietà di Leo Zhou, già socio d’affari di Francesco Wu in Ramen a Mano: il primo locale risale al 2009 e fu aperto in via Padova, proponendo una cucina cinese basata sul piccante con l’aggiunta di alcuni piatti tipici della città di Guangzhou, l’idea ha avuto successo tra gli appassionati dei sapori hot e tra gli studenti, spingendo Leo a replicare in altre tre location, nell’ordine in via Casati, via Lomazzo e in zona Bocconi, per poi inaugurare il primo ristorante a Torino. Tutti i cuochi passano per la storica insegna di via Padova, divenuta una sorta di polo formativo, e poi entrano in forza nelle altre. “Ora – racconta Leo – vorremmo partire con un piano di franchising nelle città più importanti d’Italia, cominciando da Roma e Firenze. Il principale limite all’espansione è la disponibilità di cuochi: noi li vogliamo cinesi e poiché la nostra cucina funziona, spesso me li portano via dopo il periodo di formazione…”. In previsione, inoltre, per Leo Zhou c’è la creazione di un nuovo format di spaghetteria cinese. “Si chiamerà La Mia Mano e lo farò con Francesco Wu”, precisa.
WORK IN PROGRESS
L’impressione di una comunità attivissima e pronta a innovare è confermata da Maurizio Lai, titolare dello studio di architettura Laistudio e particolarmente attivo sul fronte delle collaborazioni con imprenditori cinesi della ristorazione. Nei suoi progetti, tra le novità in arrivo, c’è lo sviluppo di un food delivery di lusso, con committente la famiglia Liu, denominato Aji, il potenziamento della catena Sushi Club e altri ristoranti tra Milano e la Lombardia, ai quali si aggiungono quattro nuovissimi progetti in via di definizione. “Parliamo di imprenditori pragmatici, ambiziosi e impazienti. In questo momento, più che a Milano, stanno guardando alla provincia lombarda perché ritengono che il capoluogo sia abbastanza saturo”, ci racconta. E se Lai conferma una reale quanto tardiva partenza del trend regionale a livello di cucina, parlando di ambiente e di design dei locali precisa: “Oggi i cinesi vogliono un ristorante che non sia più soltanto uno spazio dove mangiare, ma anche un mondo più social, orientato all’aperitivo, dove incontrarsi a prescindere dal fatto che si possa consumare un pasto”.
di Andrea Guolo