Il successo del prosecco sta creando un effetto scia per il lancio di nuovi spumanti. I gruppi italiani ampliano il numero di referenze attraverso accordi o acquisizioni.
Il mercato vuole lo spumante e i brand si organizzano per soddisfare la domanda, ampliando il proprio portafoglio storico con accordi distributivi o lanciando nuovi prodotti per la gamma sparkling. L’acquisizione è una terza via che, però, i gruppi del vino percorrono con prudenza perché, soprattutto nelle zone più vocate per la spumantizzazione, i valori dei terreni sono saliti a livelli spesso proibitivi. Questo è lo scenario commerciale osservato a Prowein, la principale fiera internazionale di settore con 6.400 espositori, di cui 1.500 italiani, che si è tenuta a Düsseldorf dal 19 al 21 marzo. A tener banco è sempre il fenomeno del prosecco la cui produzione, sommando la doc Treviso e le due docg Conegliano-Valdobbiadene e Colli asolani, supera 500 milioni di bottiglie. “I risultati sono ancora oggi sorprendenti – afferma Antonio Rallo, titolare di Donnafugata e presidente di Unione Italiana Vini – e poter disporre di prosecco è diventata ormai un’esigenza imprescindibile per molti player, perché funziona come apriporta verso i buyer e la grande distribuzione organizzata”. Analizzando i dati del 2016, anno in cui il vino italiano ha realizzato il nuovo record di valore esportato a 5,6 miliardi di euro (+4,3% sul 2015), appare chiara la forza trainante della bollicina di nordest, che ha messo a segno un incremento del 32,3% per un controvalore di circa 885 milioni di euro. Senza spumante, l’Italian wine avrebbe perso quota nell’export, con i suoi vini fermi in calo del 4,5% in quantità e dello 0,7% in valore. Con il prosecco diventato ormai un brand globale, al pari dello champagne e con il vantaggio dell’accessibilità economica, il resto del comparto cerca di sfruttarne l’effetto scia per lanciare spumanti a metodo charmat, valorizzando vitigni autoctoni di zone come Friuli (ribolla gialla), Emilia-Romagna (pignoletto), Toscana (vermentino), Campania (falanghina) e perfino Sicilia (nero d’Avola). Il successo del tentativo dipende naturalmente dall’orientamento del distributore perché, sostiene Rallo, “la ristorazione è sempre molto attenta alla ricerca delle nicchie e dei vini ottenuti da vitigni autoctoni tornati in auge, come dimostra il successo di passerina e pecorino tra Marche e Abruzzo, mentre la gdo e le grandi catene comprano ciò che è più trendy ovvero il prosecco tra le bollicine e il pinot grigio tra i vini fermi”. La tendenza a diversificare la categoria sparkling ha contagiato anche il gruppo Zonin 1821, terzo player italiano per fatturato, che, pur interpretando un ruolo da protagonista nel prosecco con oltre 20 milioni di bottiglie prodotte, ha lanciato tre nuove etichette nella spumantistica da uve coltivate in Sicilia, Friuli e Puglia. “L’alternativa al prosecco è una via da percorrere – spiega a Pambianco Magazine il presidente Domenico Zonin – anche perché il costo dello sfuso è salito a livelli tali da comprimere non solo i margini degli imbottigliatori, ma anche quelli dei distributori, i quali sono ben lieti di valutare soluzioni più profittevoli”. Nei vini fermi, dove non si verifica l’effetto traino della spumantistica, il successo dipende dalla specifica denominazione. “Ci sono zone in grande sviluppo, dalla Valpolicella alle Langhe passando per Chianti e Montalcino, e altre che fanno molta fatica perché, in assenza di un trend positivo, manca anche quella curiosità da parte dei consumatori e dei distributori che li spinge alla ricerca di novità” commenta il numero uno di Zonin 1821. È quindi logico che le principali acquisizioni di aziende messe a segno nel 2016 e nei primi mesi del nuovo anno abbiamo riguardato le denominazioni più prestigiose del panorama vinicolo italiano, da Montalcino a Bolgheri in Toscana alle Langhe in Piemonte, con poche operazioni rilevanti effettuate nell’area del prosecco docg (le più importanti hanno riguardato Canevel, acquisita da Masi Agricola, e Ruggeri, passata sotto il controllo dei tedeschi di Rotkäppchen-Mumm) e calma piatta su altri territori. “I marchi forti – conclude Zonin – saranno sempre più strutturati e continueranno a investire, se hanno liquidità sufficiente per farlo, nelle denominazioni di qualità. Andare a scoprire nuove zone, in un momento caratterizzato da una ferma mondiale dei consumi, mi parrebbe una decisione avventurosa”. L’ampliamento del portafoglio comporta anche dei rischi, evidenziati da Andrea Sartori, titolare di Casa Vinicola Sartori e presidente del consorzio Italia del Vino. “Può funzionare – spiega l’imprenditore veronese – nei mercati dove il vino italiano non si è ancora imposto, è il caso dell’Asia, mentre i distributori nei cosiddetti mercati maturi sono spesso legati ad altri produttori dello stesso vino, ed è difficile convincerli a cambiare fornitore. Aumentando il numero di prodotti, spesso si è costretti a moltiplicare la rete vendita”. Una visione, quella di Sartori, sottoscritta dall’amministratore delegato di gruppo Santa Margherita, Ettore Nicoletto, che evidenzia i vantaggi di operare direttamente nei mercati chiave, superando il filtro dell’importatore. “Avere una filiale negli Stati Uniti rappresenta per noi un vantaggio competitivo impagabile anche in prospettiva di acquisizioni, perché l’inserimento di un nuovo brand, per quanto blasonato possa essere, comporta un’accurata analisi da parte della distribuzione. Oggi disponiamo di un percorso privilegiato e che ci porterà a inserire più vini rossi tra le nostre referenze, essendo oggi il nostro portafoglio fortemente sbilanciato verso i bianchi”.
di Andrea Guolo