La finanza e il F&B. Nel 2017 i fondi hanno concluso operazioni importanti nella ristorazione, come La Piadineria (Permira) e Cigierre (Bc Partners). Nel vino, invece, la media è di una all’anno. L’idea del private equity: separare la proprietà fondiaria.
T ra finanza e food&beverage, la liason è ancora ferma alla fase del corteggiamento. Se con la ristorazione la scintilla è già scoccata, con il vino no. I motivi? Un locale è profittevole nel breve termine e relativamente poco impegnativo nella sua gestione industriale, soprattutto se si tratta di un franchising. Una cantina invece, per quanto prestigiosa, sconta la presenza di immobili e vigneti, asset indispensabili ma molto costosi, che alla finanza non interessano e anzi, rappresentano un ostacolo in termini di profittabilità. Le conferme arrivano dai dati raccolti da Aifi (Associazione italiana private equity, venture capital e private debt): gli investimenti sono in costante crescita per numero di operazioni concluse, dalle 14 del 2013 alle 24 del 2016, per un controvalore che dai 63 milioni di euro nel 2013 ha raggiunto i 388 milioni del 2016, passando attraverso il record di 530 milioni nel 2014. Quanto al 2017, i dodici mesi si sono conclusi con 11 deal per un totale di 324 milioni di euro per quanto riguarda le movimentazioni effettuate da private equity e venture capital, mentre gli attori del private debt si sono resi protagonisti di 14 operazioni per un totale di 72 milioni di euro investiti, tra le quali spicca quella conclusa da Anthilia Capital Partners sulla De Matteis Agroalimentare (pasta Armando). Elio Milantoni, partner di Deloitte ed esperto di private equity, sostiene: “Il motivo per cui il food & beverage italiano è attrattivo risiede nell’alta qualità dei prodotti offerti dalle aziende, che spesso operano in segmenti di nicchia caratterizzati da altissimo know-how e bassa replicabilità dei prodotti”. E le operazioni concluse dimostrano che la tendenza non è limitata alle aziende di beni di consumo, ma anche a quelle di filiera. “L’attenzione dei private equity fund – sottolinea Milantoni – di recente si è focalizzata sul comparto degli ingredienti di base per la produzione di cibi (es. coadiuvanti, lieviti, preparati ecc.)”.
Operazioni che nel breve periodo, come indicato da Deloitte, hanno interessato le fette biscottate Monviso, acquistate da Cerea Capital, i preparati per pasticceria Irca, finiti in The Carlyle Group, la panetteria Ro.Mar., andata in Alto Partners, e gli ingredienti per gelati Optima ora sotto l’ombrello di Charterhouse. “Negli ultimi anni – continua l’esperto di private equity – si è assistito inoltre al forte interesse per il settore della ristorazione, inteso come catene di locali, che ha registrato oltre 30 transazioni negli ultimi 4 anni a livello globale evidenziando multipli sull’ebitda mediamente pari a 10x”. Tra questi vanno ricordati il caso di La Piadineria, comprata da Idea Taste of Italy per circa 40 milioni di euro e poi venduta a Permira per 250 milioni dopo l’apertura di circa 80 negozi, e quello di Cigierre (Old Wild West, America Graffiti), finita a BC Partners con una enterprise value da 330 milioni di euro. “Ora ci sono rumors su Temakinho, che ha raccolto l’interesse di 21 Investimenti”, ricorda poi Milantoni. Ma se il comparto del cibo sembra aver trovato una sua stabilità, pur “non avendo aspettative di un ulteriore slancio, viste le numerose transazioni avvenute negli anni scorsi”, diametralmente opposto è il discorso per il mondo del vino. Per Aifi, dal 2007 a oggi le operazioni corse lungo l’asse finanza-produttori non arrivano alla decina. E questo a dispetto di un mercato che, come si evince dallo studio, “Il vino italiano e lo scenario globale”, prodotto dall’area studi di Mediobanca, è in costante crescita, soprattutto oltre confine, e con ampi margini di miglioramento su piazze come quella cinese e nel rapporto sul prezzo al litro. L’eccessiva verticalizzazione delle strutture, la pesantezza degli stati patrimoniali e i rendimenti mediamente bassi, salvo i casi legati ai cosiddetti fine wines, continuano a essere un forte deterrente d’investimento rispetto al business enoico. Un altro ostacolo è dato dal concetto del tempo: veloce per chi investe, lento per chi produce. Per ovviare il problema, almeno riportando il pensiero più diffuso dalla comunità finanziaria, si potrebbe scorporare un’azienda vitivinicola in due rami: uno commerciale, libero degli immobili, e uno fondiario. Il modello è lo stesso dell’Esselunga di Caprotti, con la separazione tra la proprietà dei capannoni e quella del supermercato ospitato. Altrimenti le uniche due vie d’investimento oggi possibili sembrano essere quelle dei real estate e, ancor di più, dei private debts, dove i primi troverebbero in cantina e vigneti il business ricercato, mentre i secondi ne trarrebbero invece solide garanzie. Certo, per chi è un po’ più importante per dimensioni c’è anche la via della quotazione, che per ora è stata perseguita solamente da Masi Agricola tra i produttori di alta gamma, o in alternativa il fatto di continuare a camminare con le proprie gambe. Perché l’apertura al capitale non è obbligatoria, soprattutto per chi ha una cantina e non ha la stessa necessità di investire per nuove aperture che invece hanno i format di ristorazione. O spesso, avendo un capitale proprio in cantina, non ne avverte la necessità. Il rovescio della medaglia arriva però nel momento in cui deve affrontare, da solo, grandi mercati come Usa o Cina.
di Fabio Gibellino