L’illuminazione è una scienza, magari non esatta, ma imprescindibile per esaltare il lavoro dello chef nell’esperienza della haut-cuisine. Così si affermano light designer specializzati come Davide Groppi, partner degli chef stellati
Considerare la luce come un ingrediente. Questa è la sfida raccolta dagli chef d’alta cucina, che oggi più che mai si rivolgono a lighting designer d’esperienza per ottenere nei loro ristoranti quell’illuminazione “stellata” di cui necessitano per esaltare il risultato del loro lavoro, rendendo ogni piatto un’opera d’arte. Che la scelta sia rivolta verso una luce d’ambiente, soffusa e accogliente, o d’accento, teatrale e più intima, la luce è quell’elemento chiave che se mal applicato, rischia di rovinare la mise-en-place o il capolavoro gastronomico appena servito.
ELEMENTO SCENICO
“Come in un museo, il piatto è un’opera d’arte” ha dichiarato a Pambianco Wine & Food Giancarlo Perbellini, chef da due stelle Michelin con Casa Perbellini a Verona e che a fine marzo è approdato a Milano con Locanda Perbellini Bistrot. “La luce – continua Perbellini, famoso peraltro per i suoi dessert risultato anche di una lunga tradizione familiare (la sua famiglia opera nel settore da inizio 900, ndr) – deve essere in grado di valorizzarlo e mostrarlo nella sua bellezza, enfatizzarne i pregi, ma anche nasconderne i difetti come, ad esempio, i segni di un polpastrello lasciati involontariamente dal cameriere”. Non più quindi un’illuminazione dedicata solo al suo ruolo primario, ossia quello della funzionalità, ma piuttosto una progettazione che mira alla valorizzazione dello spazio, dei dettagli e che si concentra sui veri protagonisti della scena. Come fosse un teatro da illuminare, anche il ristorante e la cucina che lo anima diventano soggetti da caratterizzare attraverso la giusta illuminazione. In questo senso, si possono prendere in prestito le parole dell’architetto Ricardo Legorreta, “la luce attira le persone”, per comprendere come l’illuminazione diventi sempre più strumento esperienziale, con un ruolo di importante rilievo anche nella ristorazione. Si trova d’accordo Davide Groppi, fondatore dell’azienda che porta il suo nome e che ha chiuso il 2017 con un fatturato di circa 9 milioni di euro, recentemente entrata a far parte di IDB (Italian Design Brands) nell’ambito di un’operazione che ha posto lo stesso imprenditore e light designer alla guida di un polo, denominato Indaco, delle aziende d’eccellenza del comparto lighting. “La luce è il fluido dentro il quale succede tutto”, afferma il designer piacentino. “Ho maturato l’idea che la luce ideale per il convivio sia la luce diretta, la luce dei quadri del Caravaggio, e certamente una luce non pensata è capace di rovinare tutto. La luce non è fatta solo per vedere, ma anche per sentire.”
COME IN CARAVAGGIO
L’illuminazione progettata da Groppi arriva diretta sul tavolo, perpendicolare sul piatto, precisa ed enfatica, perché è lì che avviene la magia ed è lì che il cliente vivrà la sua esperienza. Predilige, per sua stessa ammissione, il tavolo illuminato da colpi di luce con la penombra intorno, e nella mente si proietta il ricordo di un quadro, “La cena in Emmaus”, del suo grande ispiratore. Groppi conta nel suo curriculum diverse realizzazioni nell’eccellenza dell’ospitalità italiana, dall’Osteria Francescana di Massimo Bottura a Casa Perbellini a Verona, fino al recentissimo ingresso in Galleria Vittorio Emanuele nel ristorante di Carlo Cracco. Proprio a Milano, ha firmato in passato il lighting project di Filippo Lamantia, mentre altre collaborazioni di spicco sono quelle con Moreno Cedroni per La Madonnina del Pescatore (Senigallia) e con Ciccio Sultano per il Duomo di Ragusa Ibla. Lo stesso Bottura, già numero 1 al mondo tra gli chef nel 2016 secondo la graduatoria di World’s 50 Best Restaurants, aveva dichiarato che “dentro al piatto arriva la verità” grazie alle intuizioni di Groppi, perché in grado di cogliere la vera essenza della luce. Nel 2017, al portfolio progetti di Davide Groppi si sono aggiunti Enigma a Barcellona, “ristorante misterioso” come l’ha definito lo stesso chef catalano Albert Adrià, e il veronese 12 Apostoli, annoverato fra i locali storici d’Italia: il primo dai tratti sperimentali e astratti, il secondo forte della coerenza con la storia e la città nella quale si trova. Entrambi sono esempi di come la progettazione illuminotecnica si costruisca intorno al piatto e intorno al tipo di cucina realizzato dallo chef. “Considero i ristoranti moderni – ha aggiunto Groppi – o almeno un certo tipo di ristoranti come dei luoghi esperienziali, che vanno semplicemente oltre la possibilità di mangiare. Propongo sempre di considerare la luce come un ingrediente della cucina e di servirla come prima portata. Alcuni chef mi seguono, altri pensano ancora che solo quello che c’è nei piatti sia la cosa più importante, dimenticandosi dell’esperienza extra palato dei clienti: la luce, l’acustica, il clima. Per questo, propongo sempre di iniziare a cucinare dalla sala e non dalla cucina vera e propria”. Convinta della duttilità della luce, del suo compito emozionale e allo stesso tempo pratico, è anche Barbara Balestreri, titolare dell’omonimo studio milanese di lighting design. La progettista ha infatti affermato: “Modellare la luce, scolpirla, non è solo una questione estetica o tecnica ma un compito che ha ripercussione sulle emozioni e gli stati d’animo delle persone. Illuminare un ristorante, e soprattutto i piatti che vengono serviti in tavola, significa illuminare dei gesti, dei sapori, delle ritualità. Questa è forse la differenza principale con gli altri elementi architettonici come la pietra o il cemento.”
ARTE IN TAVOLA
Le regole per la corretta illuminazione di un ristorante hanno origine dall’interpretazione e dalla sensibilità del progettista e del cliente. Davide Groppi in questo senso insiste su quanto la luce non sia una scienza esatta. “Noi proponiamo il nostro modo di vedere la luce, che è fatto di accenti, diffusioni, suggestioni, profondità”, commenta il lighting designer. Barbara Balestreri aggiunge: “A volte, le regole è bello infrangerle. Ad esempio, nel progetto per il ristorante Luce di Villa Panza a Varese, abbiamo lavorato con l’architetto Gae Aulenti e la scelta illuminotecnica che abbiamo progettato è stata quella di disporre faretti a vista, regolabili sia nell’intensità sia nella direzione. In questo modo abbiamo ottenuto un effetto naturale, emulando un raggio di sole che penetra attraverso la volta e dà risalto alle portate sui tavoli, rendendole protagoniste, esattamente come delle opere d’arte”. Un altro esempio firmato dallo studio Balestreri, nel quale la luce nel piatto convive nell’arte, è l’illuminazione scenografica della Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale in occasione della cena di Gala della mostra Hokusai, Hiroshige e Utamaro, evento nel quale le scelte cromatiche ispirate alla mostra non hanno comunque sopraffatto i piatti presentati agli ospiti. L’architettura di luce nella ristorazione dunque deve prendere forma insieme al progetto stesso, architettonico e gastronomico, perché rappresenta l’elemento che tacitamente accoglie il cliente, lo mette a suo agio e ne sublima l’esperienza culinaria.
di Costanza Rinaldi