Nel vino, la redditività della fascia alta supera quella degli altri beni di lusso. Sassicaia, ebitda record al 55,2%. Caccia ai vigneti. Ma servono i capitali.
A qualità e prestigio di un’etichetta corrisponde una redditività monstre, la più alta che si possa osservare nei bilanci di società produttrici di beni di consumo. Nel vino, come nella moda, i guadagni più importanti li realizzano i brand di fascia alta, il cui valore percepito dal consumatore è tale da spingerlo a versare un prezzo di mercato bel al di sopra della media. La forza dei gruppi vitivinicoli si esprime non tanto attraverso il fatturato, quanto nell’ebitda. Secondo la ricerca di Pambianco Strategie di Impresa, condotta analizzando i bilanci 2015 delle prime 171 aziende italiane del wine per un giro d’affari complessivo di 6,2 miliardi di euro, le realtà top di gamma incidono per il 20% sulle vendite totali e hanno un tasso di crescita superiore al resto del campione, 7,8 contro il 4,6 per cento. La differenza maggiore sta però nell’ebitda. Quello delle aziende high level è mediamente pari al 23,1% del fatturato, contro il 7,2% della fascia media. Restringendo il cerchio ai primi dieci produttori, la marginalità supera il 27%, con picchi del 42% per il capoclassifica Antinori e di oltre il 34% per Frescobaldi, che con la business unit Ornellaia sale oltre il 50 per cento. Si tratta di indici molto più elevati di quelli ottenuti dalle aziende fashion che, nello stesso anno, esprimevano come percentuale massima di ebitda su fatturato il 34,1% di Moncler, e anche del macro-comparto lusso, che non andava oltre il 37,1% di Pandora nei gioielli: livelli certamente ingenti, ma che finiscono per sembrare quasi modesti rispetto allo straordinario 55,2% messo a segno da Sassicaia (Tenuta San Guido), il top perfomer del vino italiano per marginalità ponderata. Analizzando questi dati, appare chiaro il motivo per cui i vigneti continuano ad attrarre investitori privati, con acquisizioni a titolo personale effettuate negli ultimi mesi come quelle del re dei porti russo Konstantin Nikolaev che si è assicurato la proprietà de La Madonnina a Bolgheri, e dell’argentino Alejandro Bulgheroni che ha creato pian piano un gruppo di quattro aziende nelle zone più prestigiose della Toscana. Per non parlare poi delle M&A concluse da realtà già operanti nel settore, tra cui spicca per importanza il closing di fine 2016 tra Biondi Santi, azienda ‘mito’ del Brunello di Montalcino, e i francesi di Epi specializzati nello Champagne.
L’imperativo, per le aziende del settore wine, è crescere di livello, ma la sfida si presenta difficile. La fascia alta richiede cultura di prodotto, investimenti mirati e consenso non solo da parte della critica specializzata, ma anche e soprattutto di investitori e collezionisti. Chi occupa la fascia media deve intraprendere un percorso di qualificazione dei prodotti, rafforzare la distribuzione occupando le piazze chiave e il canale horeca più qualificato, entrare nelle carte dei ristoranti ‘stellati’. Sono tutte mosse che richiedono investimenti altissimi e pertanto un’opzione può essere l’apertura del capitale a partner industriali o finanziari che possano fornire risorse e manager per costruire progetti di sviluppo. Un’alternativa, scelta a esempio da Masi Agricola, è la quotazione in Borsa, mentre l‘iniziale interesse dei fondi di private equity verso il vino sembra essersi affievolito, per via dei costi ingenti legati all’acquisizione di aziende con enormi proprietà fondiarie e perché i fondi generalmente escono entro cinque anni, orizzonte temporale troppo breve per osservare un ritorno degli investimenti in un settore dove bisogna saper attendere. Chi fa parte del gotha sta sicuramente bene. Antinori svetta nella classifica per fatturato con oltre 200 milioni di consolidato 2015 e con un aumento stimato del 4% per l’anno appena concluso. “La marginalità – spiega l’AD Renzo Cotarella – è in linea con l’esercizio precedente e se consideriamo soltanto il vino, si avvicina al 50 percento del fatturato. La quota si riduce per via delle attività di ristorazione, dove i guadagni sono più contenuti. Un vantaggio in più, per il nostro gruppo, deriva dall’aver sempre fissato i prezzi in dollari per le bottiglie destinate al mercato americano, che per noi vale circa un quarto del fatturato: eravamo svantaggiati ai tempi dell’euro forte, ci è andata bene negli ultimi due anni”. Sul futuro dei vini top, Cotarella afferma: “Questa è la fascia che va meglio in assoluto e per cui vedo maggiori prospettive di sviluppo. Le criticità sono legate alle dimensioni, perché occorre fare massa critica anche nel mondo fine wines, e soprattutto alla presunzione che il brand possa diventare più importante del prodotto. Per mantenere il successo, occorre esser certi che i nostri vini siano stilisticamente in linea con quanto si aspetta il consumatore”. Conta anche il brand territoriale. Il successo della Toscana nel panorama mondiale dei fine wines, espressi perlopiù da territori come Bordeaux, Borgogna e Napa Valley, è stato accompagnato dalla forza dei suoi marchi più prestigiosi, mentre il risultato dei grandi vini piemontesi è esposto all’andamento delle vendemmie e alla qualità delle corrispondenti annate. Per valorizzare ulteriormente i top brand del proprio gruppo, Frescobaldi ha dapprima separato la gestione di Ornellaia e ora anche quella di Masseto, con cantina e distribuzione dedicata, e Luce della Vite. “Siamo riusciti a mantenere alta la percezione sui marchi – afferma Giovanni Geddes da Filicaja, amministratore delegato di Frescobaldi e Ornellaia – che poi naturalmente aumenta nelle annate migliori. Gli investimenti attuali sono mirati al rafforzamento dei brand e del territorio in cui operiamo, perché un grande vino è innanzi tutto espressione di un grande territorio”.
di Andrea Guolo